Negli scorsi giorni ho dialogato con diversi «bravi ragazzi» in procinto di riprendere la scuola, cercando di cogliere il loro stato d’animo, le loro attese di fronte a questo appuntamento ricorrente. Non si tratta ovviamente di un campione rappresentativo, seppur ricco di varietà, e dunque non posso trarne in alcun modo valutazioni generali. Voglio però segnalare almeno un dato che mi ha lasciato sconcertato: parecchi di essi (sia delle medie sia delle superiori) mi hanno manifestato, non senza qualche iniziale reticenza, una forte e sostanziale mancanza di motivazioni. Nessuno pretende che si affronti un nuovo anno scolastico con gioia, che si entri nelle aule di qualsiasi istituto con vero piacere, con la certezza di trovarvi quotidiane occasioni di divertimento:cosa impossibile se non addirittura innaturale. Ma bisogna riconoscere che almeno un pizzico di ragione questi giovani devono pur farsela al di là dell’obbligo cui sono piegati, altrimenti che senso ha l’operazione?
Non so immaginare quanti siano coloro che si trovano in questa situazione di 'apatia', di svogliatezza sistematica:penso tuttavia che siano molti, troppi. E va detto che a questo atteggiamento di fondo non risponde automaticamente un insuccesso sul piano dei risultati concreti: anzi, forse usano la «normalità » dei loro voti (di solito senza infamia e senza lode)per nascondere il proprio profondo disagio, il loro smarrimento. Soprattutto la loro mancanza di progetti per il futuro, di prospettive da sognare. Non occorre essere psicologi o sociologi per capire che sta qui il nocciolo della questione: non riuscire ad immaginare e disegnare obiettivi da raggiungere a breve e medio termine. Cosa tristissima e, soprattutto, dolorosa.
Rispondere – come diversi di quei ragazzi mi hanno detto – chelarealtàèquellaperchéancora non hanno minimamente deciso (né riescono a pensarlo) cosa «fare da grandi», può anche essere una giustificazione logica, ma non accettabile. Soprattutto perché intanto a scuola il tempo passa invano, e nessunose lopuòedevepermettere. Il fatto è che c’è il rischio di trovarsi di fronte ad un «esercito» di piccoli Hanno Buddenbrook, il cui padre – come descrive la penna mirabile di Thomas Mann – lo guardava «con quello scoramento che gli impediva di leggere nel suo avvenire», misterioso, sfuggente e che poi non ebbe nemmeno modo di svilupparsi.
Non bisogna essere pessimisti, ma occorre reagire. Un primo passo, forse essenziale, è quello di richiamare con fermezza l’indispensabilità del «dovere»: il dovere di far bene (o nel migliore dei modi possibili) l’unico «mestiere» che si chiede ai ragazzi d’esercitare, cioè quello di apprendere; poi quello di richiamare la ricchezza delle opportunità di conoscenza che la scuola offre loro, tanto più preziosa quanto più difficile è trovare quelle opportunità dentro la cerchia familiare o altrove. Taluni hanno la fortuna, ad esempio, di vedersi trasmettere entro le mura domestiche la passione per la letteratura, la storia, la filosofia, la politica, ma non vi troverebbero le indispensabili nozioni basilari di matematica, fisica, chimica o biologia: dove incontrarle e farle proprie se non nelle aule delle medie dapprima e poi delle superiori? E lo stesso vale per tante altre offerte nelle più diverse discipline. Come dire:a scuola si possono imparare tante cose che non è dato automaticamente e così facilmente trovare altrove.
È possibile rinunciare a questo vero e proprio dono per inerzia, per scoramento emotivo, per pigrizia? L’impresa implica qualche inevitabile sacrificio, qualche minima fatica, ma insomma il santo vale senz’altro la proverbiale candela, anche senza dover qui richiamare la limpida, dura e fondamentale lezione di quel formidabile e radicale pedagogo che fu don Lorenzo Milani a sostegno di una scuola da intendere e volere quale via fondamentale per il riscatto degli emarginati e di chi non ha altre strade per imparare ciò che gli deve servire nella vita.
Sarebbe bello che oggi nelle sedi scolastiche ticinesi che riaprono si tenesse conto (da parte di tutti gli «attori» chiamati in causa, e in primo luogo genitori e docenti)anche di questo genere di «riflessioni a margine». Ne va del futuro di Martino, Larissa, Laura e Giulia, Monica e Rachele, e persino di Margot e Marta che entrano per la prima volta, con ignara felicità, in una classe dell’infanzia. Dunque di noi stessi, che non dobbiamo solo stare a guardare.