Il collega Carlo Manzoni non me ne vorrà se dissento da quanto ha scritto sabato scorso su queste pagine in relazione alla votazione federale del 21 maggio prossimo relativa alla modifica costituzionale sulla formazione. Contrariamente a quanto da lui asserito, non si tratta di un «tema specialistico, di non facile comprensione»: si tratta semplicemente di dire si o no al principio che la Confederazione possa nel futuro mettere il becco in termini forti (dunque ben più di quanto già oggi avviene) negli ordinamenti scolastici dei singoli Cantoni, togliendo loro di fatto quegli spazi d'autonomia (pur limitati, diciamo la verità) che ancora detengono in materia. A suo giudizio questo sarebbe un passo innanzi positivo, volto alla ricerca di un'uniformità dei sistemi formativi elvetici, un obiettivo dunque da perseguire. Da parte mia reputo invece assai pericolosa la proposta, che pure ci viene presentata con tutte le cautele, i distinguo e le allettanti assicurazioni che caratterizzano e accompagnano d'abitudine, per ciò che attiene ai loro effetti concreti, le consultazioni sulle riforme costituzionali nel nostro Paese.
Il fatto è che qualora il nuovo articolo venisse accettato, la scuola ticinese dovrà inevitabilmente mutare pelle, adeguandosi molto presto ai sistemi organizzativi e programmatici di taluni Cantoni assai potenti della Svizzera tedesca (Zurigo in primis) che già hanno dettato le loro volontà in un documento di armonizzazione nazionale («Harmo S», si chiama) che è stato posto in consultazione federale dalla Conferenza dei direttori dei Dipartimenti competenti. L’idea può anche apparire interessante (quindi condivisibile) in talune sue parti, ma insomma offre a conti fatti un modello formativo che non è mai stato il nostro, né spero lo sarà. E’ infatti il modello efficentista, esclusivista (nel senso proprio del termine) perché taglia fuori dalle carriere scolastiche, dall'inizio, un'infinità di ragazzi, perché ha quali obiettivi non l'offerta di reali pari opportunità d'apprendimento, bensì la separazione più precoce possibile dei (presunti) «chicchi» buoni da quelli cattivi, destinati in termini definitivi gli uni agli inferi e gli altri all'empireo, secondo criteri per altro assai labili.
La modifica costituzionale sulla quale dobbiamo esprimerci, qualora venisse accettata dal popolo e dai Cantoni, sarebbe il «grimaldello» perfetto che consentirebbe d'aprire la porta a questo tipo di idee, cioè di imporne l'applicazione concreta e rapida su tutto il territorio federale, con buona pace di uno degli ultimi principi delle autonomie cantonali. Chi l'ha proposta, l'ha votata in parlamento e oggi la sostiene, lo sa perfettamente, e mi sembra piuttosto triste che non abbia il coraggio di dire come stanno le cose nella realtà effettuale che ne deriverà.
La fretta è sempre stata una cattiva consigliera, e ciò vale ancor più quando si parla di scuola. Ne fa fede l'applicazione in ambito universitario del cosiddetto «modello di Bologna », che ha fatto tabula rasa con estrema rapidità di una lunga, consolidata tradizione d'eccellenza europea sacrificata sull'altare di un modello statunitense imposto anche da noi a livello politico e piaciuto a chissà chi (ancora, a dire il vero, non si sa, non capisce), non certo agli addetti ai lavori più responsabili. Da qui ad immaginare analoga sorte per i gradi scolastici inferiori il passo si è fatto ormai brevissimo. Il Ticino ha costruito una propria via pedagogica dignitosissima ed efficace negli ultimi trenta-quarant’anni, sottoposta man mano alle opportune riforme, alle necessarie modifiche, ma mai a stravolgimenti per ciò che concerne la sua impostazione di base fransciniana. Da noi si è cercato di unire gli allievi, non di dividerli, si è cercato di fare in modo che i meno bravi possano convivere il più a lungo possibile con i migliori, nel segno di una scelta altamente civile, pur al di là delle ovvie mille difficoltà che ciò comporta. Perché dovremmo cambiare? E a vantaggio di chi?
Per ridimensionare o, peggio, per delegittimare la strada sinora percorsa si fa oggi volentieri ricorso anche ai risultati dell’indagine PISA: una rilevazione statistica che offre molti spunti di riflessione, ma che nel suo spirito globalizzante non può che lasciare in realtà il tempo che trova visto che pretende di confrontare fra loro realtà non paragonabili, con inoltre l’effetto conclusivo (appunto come è accaduto e avviene) di prestarsi a facilissime strumentalizzazioni politiche. Sono altri piuttosto i parametri di giudizio che andrebbero tenuti in considerazione, come le percentuali di accesso agli studi accademici e quelle della loro riuscita finale, che indicano risultati ottimi per i ragazzi ticinesi rispetto alle medie del resto della Svizzera. Questi dati positivi sono davvero estranei alla circostanza che (per fortuna) non cominciamo a «selezionare » le capacità cognitive dei bimbi a quattro anni o a dieci?
Si parla molto del fatto che nel nostro Paese si sta ormai creando una situazione, a livello di politica sanitaria, che prevederebbe (sulla base ovviamente delle diversità di reddito) l’applicazione di una medicina di serie A e una di serie B, e anzi molti pensano che già oggi di fatto questo esista. Vogliamo che capiti qualcosa di analogo per la scuola, che i giovani vengano confrontati con non dissimili diversità formative? Non so voi, ma io in un Paese che accetta senza reagire l’inevitabilità di tali indirizzi (per altro lontani dalle nostre tradizioni) non mi sentirei a mio agio.