Quello dell’insegnante è forse il mestiere più difficile e più affascinante e la scuola è la sede ideale in cui apprendere soprattutto a essere liberi. Lo psicoanalista italiano Massimo Recalcati ha dedicato un bel libro alla riabilitazione di una pedagogia non asservita all’ideologia utilitaristica dei nostri tempi. Perché ‘un’ora di lezione ben fatta può cambiare la vita’.
Per ragionare – seppure a posteriori – del referendum sulla scuola del 28 settembre partiamo dalla storia del professor Keating/Robin Williams del film “L’attimo fuggente” di Peter Weir, del 1989. Vi si narra di un giovane insegnante di materie umanistiche che torna nella scuola dove era stato allievo. Una scuola dove regnano ordine, disciplina, tradizione. Rompendo questo conformismo pedagogico fatto di un sapere freddo e senza passione, Keating prova a insegnare agli allievi, attraverso la poesia, la forza creativa della libertà.
La scena che qui ricordiamo è quella in cui Keating sale in piedi sulla cattedra, sconcertando i suoi studenti e dicendo loro: “Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva. Anche se può sembrarvi sciocco o assurdo, ci dovete provare. Ecco, quando leggete, non considerate soltanto l’autore. Considerate quello che voi pensate. Figlioli, dovete combattere per trovare la vostra voce. Più tardi cominciate a farlo, più grosso è il rischio di non trovarla affatto”. Ecco: anche o soprattutto questo significa insegnare. Un mestiere difficile, forse il più difficile – ma il più affascinante – del mondo. E a questo dovrebbe servire la scuola: a insegnare la forza creativa della libertà, a permettere a ciascun allievo di trovare la sua voce senza dover ripetere quella degli altri. Perché solo così ciascuno diventa soggetto, capace di autonomia, di pensiero critico, trovando una voce propria con cui esprimere se stesso. Perché non si tratta solo (anche) di trasmettere conoscenza e sapere, ma di insegnare a guardare e a interpretare la realtà da diversi punti di vista; a mettersi in gioco avendo le basi per farlo; a usare il sapere appreso ma soprattutto a reinterpretarlo; a farsi attraversare dalla diversità e dall’anticonformismo, cioè dalla libertà creativa. Per aiutarci a definire cosa sia insegnare e cosa dovrebbe essere la scuola (tema antichissimo e sempre moderno) è appena uscito il bellissimo libro “L’ora di lezione” (Einaudi) di Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti italiani, saggista e collaboratore di ‘Repubblica’. Certo, la scuola è oggi in crisi e non solo in Italia. Scrive Recalcati: “Il problema della scuola è che del suo compito educativo resta solo una carcassa svuotata di ogni linfa vitale, perché la fabbricazione della vita” passa oggi attraverso altri meccanismi pedagogici e in particolare attraverso il potere “ipnotico-seduttivo” del mercato – e delle nuove tecnologie.Da Edipo a Narciso
Di più: il modello scolastico è passato da quella che Recalcati definisce come la Scuola-Edipo (fondata sulla “potenza della tradizione, sull’autorità del Padre, sulla fedeltà al passato”, sulla normalizzazione dell’insegnamento e sulla disciplina – un modello che produce inevitabilmente la sua stessa contestazione, come nel Sessantotto) alla Scuola-Narciso (dove ad essere liberato non è il desiderio creativo, ma “quello dell’affermazione cinica di se stessi”, producendo tanti Narcisi che esigono l’abolizione degli ostacoli, del concetto di limite e per i quali la formazione “si riduce al solo potenziamento del principio di prestazione che deve preparare i giovani alla gara implacabile della vita. Il fallimento non è tollerato, come non è tollerato il pensiero critico”). Ovvero, è il trionfo della pedagogia neoliberale: la società come mercato, la vita come competizione, se stessi come merce da vendere su un mercato nel quale contano e hanno valore e producono profitto economico solo le competenze che possono accrescere il “capitale” di ciascuno (e “capitale umano” è parola oscena, ma ormai di uso corrente), cioè la sua vendibilità sul mercato. Per ottenere questo risultato e produrre individui di mercato la pedagogia neoliberale dice che bisogna considerare la scuola come un’impresa che mira a produrre competenze efficienti adeguate al proprio sistema: “La scuola neoliberale esalta l’acquisizione delle competenze e il primato del fare e sopprime, o relega in un angolo stretto, ogni forma di sapere non legato con evidenza al dominio di una produttività concepita in termini solo economicistici”. Il sapere deve servire a fare, a produrre, ad essere performanti e competitivi. Ad essere sempre più “soggetti economici” e sempre meno persone o cittadini. Il sapere che non produce profitti è quindi inutile e non vale la pena spendere soldi per insegnarlo. Prevale così un modello scolastico che vorrebbe emancipare ciascuno dai valori (i valori, non economici, sono cosa assai diversa dal valore, solo economico) “per rafforzare le competenze a risolvere i problemi piuttosto che a saperseli porre” – quale dovrebbe essere invece lo scopo primario dell’insegnare e della scuola. Le teste devono così funzionare come computer, “come mappe cognitive che esigono un puntuale aggiornamento. […] Il principio di prestazione rende l’apprendimento una gara a ostacoli che non può e non deve dedicare tempo sufficiente alla riflessione critica, alla necessità di imparare la possibilità stessa di imparare”. È quindi una scuola che vorrebbe polverizzare il libro per sostituirlo con l’informatica, nell’illusione di un sapere illimitato e disponibile senza fatica. Con il rischio di rendere lo schermo del pc o dell’iPad “uno specchio vuoto che, anziché aprire mondi, li richiude in un’autoreferenzialità mortifera”. In una rete, dove “la dimensione dell’esperienza è totalmente evasa da un sapere prêt-à-porter, sempre a disposizione che, di fatto, genera anoressie mentali, rigetto della ricerca del sapere nel nome di una sua acquisizione senza sforzo”.Più parole, meno slide
E poi, la parola. Recalcati scrive pagine bellissime sulla parola. Non slide, non pc, non iPad. Ma parole. Per insegnare. Per insegnare ad apprendere, a ragionare, a riflettere, a vedere il mondo da altre angolazioni e da altre prospettive – cosa che le slide appunto non possono fare. Perché solo la parola “trasforma, plasma, genera la vita”. La parola; e quindi l’insegnante. Colui che parla (che dovrebbe parlare). Con gli allievi e con se stesso. Che insegna generando pensiero e persone, appunto attraverso la parola. La Scuola-Edipo toglieva la parola, gli studenti dovevano solo ascoltare. La Scuola-Narciso in altro modo fa lo stesso, premia chi ripete, chi riduce l’apprendere alla riproduzione di ciò che viene trasmesso. Esalta un allievo-Narciso individualista e ipercompetitivo (il principio di prestazione, ancora), ma gli insegna a clonarsi nell’apprendimento del medesimo e dell’uguale, perché questo è ciò che serve alla riproducibilità del sistema. Ma questo modello perverso è la negazione dell’idea di scuola, che “smette di interrogare sul senso della vita e rischia di non proporre più il sapere come allargamento dell’orizzonte del mondo, essendo il suo compito divenuto ormai quello aziendalistico di fornire solo strumenti utili”, ma utili solo al sistema economico, non alle persone come soggetti per consentire loro di costruire un sé autentico e non clonato sul modello impresa. La vera scuola deve invece aprire al mondo e aprire sempre nuovi mondi, perché non esiste un solo mondo (economico, d’impresa) ma molti mondi diversi e possibili. La scuola non è luogo dove si ricicla il sempre uguale, ma dove si scoprono rotte nuove, dove si impara a navigare navigando, dove gli allievi imparano apprendendo e rielaborando, dove lo stesso insegnante impara insegnando.L’eros del sapere
Per questo “il maestro non solo conduce lungo strade che non si conoscono, ma soprattutto muove il desiderio del viaggio”. Per farlo deve tuttavia rompere il velo dell’uguale, del navigare usando solo le mappe conosciute e deve insegnare e imparare egli stesso a cercare quelle isole sconosciute che non sono ancora sulle mappe, sapendo che sempre ci sarà un’isola (intellettuale, di sapere e di conoscenza) ancora sconosciuta e da scoprire. Perché “il maestro non è un padrone, non esige l’uniformità dei suoi allievi”, non deve tradurli in capitale economico. E l’essenziale dell’insegnamento “consiste nel mobilitare il desiderio di sapere, nel rendere corpo erotico l’oggetto teorico, si tratti di una poesia di Pascoli o della successione di Fibonacci”. Certo, tutto questo è complicato. Rendere erotico il sapere non è facile, soprattutto quando il sistema predilige e chiede omogeneità, standardizzazione e semplificazione, pur riempiendo il mondo di pornografia. Ma Recalcati ha ragioni da vendere nella sua analisi critica della scuola (italiana, ma non solo). Meno, forse, quando propone di superare la vecchia Scuola-Edipo e l’attuale Scuola-Narciso con un modello di ScuolaTelemaco. Ma è certo che per tornare ad amare – e a far amare – il sapere e la conoscenza occorre uscire dalla pedagogia neoliberale e tornare a investire nella scuola pubblica e laica, in un sapere inutile (per l’economia, ma utilissimo per gli uomini) e negli insegnanti. Perché un’ora di lezione ben fatta – ancora Recalcati – può davvero cambiare la vita.