Aidan Chambers, autore inglese che ha scritto storie dove bambini e adolescenti sono protagonisti, grande esperto di letteratura per l’infanzia, nel parlare di educazione linguistica e letteraria, scrive nel suo Siamo quello che leggiamo (Equilibri, Modena 2011, p. 62) che “il cuore dell’istruzione sta nel tentativo di aiutare i bambini a decifrare e affrontare un insieme caotico di esperienze. Senza il linguaggio, strumento essenziale e popolare, nessuno potrebbe riuscire in questo intento; brancoleremmo tutti nel buio, sopraffatti dalle nostre emozioni, sotto il peso dell’incomprensibile, estraniandoci, come fanno alcuni, in un mondo chiuso, per proteggerci da questo assalto insostenibile.”
Nelle storie che gli esseri umani si sono raccontati, tra il noto e l’ignoto, si nasconde una sorta macchina di preparazione alla vita sociale, perché il racconto permette di “diventare altre persone, forse mille, pur rimanendo noi stessi” (Chambers, p.64), alla ricerca della nostra identità. La narrazione può aiutarci, tra le altre cose, a rintracciare la nostra biografia riflessa nelle parole di qualcun altro. L’altro è il nervo scoperto del nostro tempo: lo si osserva ogniqualvolta il tema dell’accoglienza tocca le sfere della politica, colpendo come in un colpo di bigliardo le emozioni contrastanti del popolo.
L’opportunità di accogliere in una scuola dei bambini ecuadoriani in una scuola comunale in Ticino, ha fatto molto discutere nei giorni scorsi. Sono proprio le biografie di questi bambini che pulsano di spazi e parole che, agli occhi dei nostri figli, potrebbero risultare cose lontane. Nelle strade, nomadi vestiti di lana colorata, forse quei bimbi non nutrono nemmeno il sogno di andare a scuola con gli altri. Immagino la maestra o il maestro, soli, in difficoltà nel tentare di offrire vicinanza e attenzione educativa nell’aula, cercando di attirare l’attenzione dei piccoli sud americani con un libro illustrato: La grande fabbrica delle parole, Il paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak o altri albi illustrati di spessore poetico, che possono essere apprezzati anche da chi non parla italiano. Come potrebbe reagire il bambino sud americano? Sono le tipiche difficoltà che si incontrano nel mestiere dell’insegnare in una scuola che appartiene a tutti. Episodi di emergenza: Kahled, ad esempio, è siriano, curdo, quindi non parla né inglese, né arabo, ma soltanto il suo dialetto. Come fare? Quali strumenti abbiamo a disposizione per affrontare queste emergenze? Gli occhi di quell’infanzia sono per noi biografie lontane, popolate da follie rifugiatesi dietro le ombre di una luna impallidita dai nostri ipad illuminati. Ci sono maestri che se le fanno raccontare, quelle storie, perché l’apertura di finestre sul mondo, genera, rigenera, modifica i punti di vista. Come nel bellissimo libro di Vittorio Zucconi, consigliatomi da una studentessa, futura insegnante, intitolato Stranieri come noi (Einaudi, Torino 1995).
In un suo recente intervento alla SUPSI di Locarno (17 ottobre 2014, “Quale didattica dell’italiano?”), Raffaele Simone ha descritto una situazione socio-linguistica italiana catastrofica, con un analfabetismo generato dalle nuove tecnologie (o forse dalla democratizzazione degli studi) e una sfacciata presenza di parole povere nell’espressione verbale che tocca anche le istituzioni, i media. Insomma, una volta si stava meglio; oggi siamo dei barbari senza cultura che dicono “cazzo” e “uella” senza rendersene conto. Di fronte all’esposizione del professore, mi sono chiesto se nella civiltà contadina delle nostre valli la situazione fosse davvero migliore: quando mia nonna a diciannove anni si barcamenava tra fieno e mucche (in dolce attesa, lontana dal suo uomo, impegnato come recluta, in piena guerra mondiale). Tradurre in parole la propria esistenza non è mai stato facile, per mia nonna, perché di parole non ne ha mai avute molte. O forse non c’era il tempo di cercar parole. L’emergenza era altra. Questo eravamo noi prima di nascere. Fa parte ancora della nostra identità? Oppure siamo tanto cambiati, al punto che le tracce si sono perse con la fretta e il vociare frantumato?
Il tentativo di invitare questi bambini a scuola, ha un significato alto: potrebbe essere un tentativo di portarli al racconto, all’ascolto, all’osservazione di ciò che siamo da un punto di vista diverso, cioê quello delle nostre aule. È un gesto che va segnalato come atteggiamento di una civiltà che sulla parola e sul racconto si è basata per insegnare la vita ai propri figli.(p.s. Con questa riflessione non vorrei (mai e poi mai!) indurvi a pensare che il signor Lorenzo Quadri sia un “disumano”. Per carità. Quadri faccia quel che vuole, anche se al Quotidiano di lunedì sera, mi è sembrano un bimbetto che giocava alla vittima (“mi state dando del disumano”). Ah ah ah. Che tenerezza. Che la maggioranza dei ticinesi la pensino come lui non è importante. Esiste una minoranza. Esiste. Eh già. Esisterà sempre una minoranza. Ah ah ah. Solare giornata.)