Davanti alla forbice del 2% sono quelli che si sono fatti sentire di più per gridare il loro no. Parliamo dei docenti della nostra scuola pubblica che, la si giri come si vuole, a conti fatti hanno, più degli altri funzionari, ragioni da vendere. E da spiegare, anche se (almeno ?n qui) tali ragioni le spiegano e le vendono male, curando troppo poco la relazione con l’opinione pubblica e, soprattutto, con le famiglie ticinesi. Famiglie che sono le vere fruitrici dei loro servizi. E che servizi! Servizi chiave per la vita dei loro ?gli. Che facciamo? Guardiamo da un’altra parte e alziamo le spalle perché la crisi tocca tutti e quindi zitti? No, la scuola, la nostra scuola merita di più. Un’attenzione maggiore. Ma perché noi lo capiamo? Perché da troppi anni ormai – e del resto non è la prima volta che manifestano davanti a Palazzo – i loro salari si assottigliano mentre è richiesto loro un maggior impegno professionale, in particolare dal punto di vista pedagogico.
Apriamo gli occhi, guardiamoci attorno, parliamo con loro, con i ragazzi, osserviamoli. Sta capitando qualcosa. È già capitato. Non vi è infatti chi non veda – a meno che vedere non voglia – come i problemi, coi quali si vedono confrontati ogni giorno insegnando questa o quella materia ai ragazzi, si siano fatti vieppiù seri. Dalla disciplina in su.
Il perché è presto detto: la società negli ultimi vent’anni è profondamente cambiata, non sempre in bene. Taluni allievi portano dentro le aule, quindi scaricandole inevitabilmente anche sulla scuola e su chi ci lavora, tutta una serie di questioni e problematiche molto delicate, segno tangibile di un disagio generazionale che nessun cavaliere solitario può aiutare a contenere. A farne le spese è soprattutto la scuola pubblica e dell’obbligo, ordine che per scelta politica non vuole escludere nessuno che si ritrova confrontato con famiglie in crisi e altre derive. Quindi, in de?nitiva, in pochi anni il docente ha dovuto (ma non sempre ha saputo o voluto) abituarsi ai forti cambiamenti e misurarsi con realtà dure e qualche volta anche fuori controllo. Realtà di cui la scuola di principio non dovrebbe (o non avrebbe dovuto) occuparsi se non marginalmente.
Ma questi messaggi passano? Un po’ qui e un po’ là, ma non a sufficienza. Di pari passo, infatti, gli insegnanti constatano come la loro funzione non sia più socialmente riconosciuta e rispettata (ma lo stesso succede anche alla polizia) e che nel Paese non mancano coloro che li additano quali privilegiati, per via delle vacanze e delle ‘poche’ ore di insegnamento (che non sono le ore di lavoro). Luoghi comuni difficili da sradicare, perché implicano conoscenza, sguardi attenti e – osiamo scriverlo – rispetto per l’istituzione.
Nei giorni precedenti lo sciopero abbiamo assistito alla loro mobilitazione per protestare contro i tagli, ma anche per smontare i pregiudizi e combatterli. Occorre però fare di più. E non soltanto al novantesimo in tuta da pompiere. La partita è prima di tutto culturale. Detto in tre parole: l’educazione quanto vale?
E, se vale, è normale che costi. I soldi utilizzati per la scuola, soprattutto in un cantone com’è il nostro, dove la formazione e la ricerca sono un ambito su cui bisogna puntare con decisione, vanno perciò considerati non come soldi spesi, ma come soldi investiti. In questo senso è giusto veri?care se la scuola dell’obbligo è all’altezza delle nuove s?de e se ha gli strumenti adatti a sua disposizione. Non ne siamo certi, ma gradiremmo capire meglio. Un fatto è però evidente: negli ultimi dieci anni si è investito parecchio sul fronte universitario e professionale. Lo scriviamo non per mettere in concorrenza fra loro formazioni diverse e necessarie, ma per esser sicuri che le radici e la base del tronco dell’albero della pubblica educazione siano ben solidi.
Dal canto suo, la scuola deve fare attenzione a non compiere passi falsi: il primo, non in ordine di importanza ma di attualità, è quello di aver partecipato ad una giornata di mobilitazione in settimana. Sarebbe stato molto meglio, per evidenti motivi, tenere una manifestazione al sabato. Il secondo inciampo molto più importante è quello di non aver saputo negli scorsi dieci anni capitalizzare a suf?cienza ( per divisioni interne?) il bonus di ?ducia ottenuto al momento della vittoria sul ticket alle scuole private. Venir oggi invitato come genitore o come cittadino da docenti che spiegano, in occasione di questo ulteriore taglio, qual è il ruolo della scuola è un tentativo di sensibilizzazione che avviene fuori tempo massimo. Il terzo neo è quello tabù delle mele marce: persone che non sono al loro posto, eppure ci restano per anni e anni. Non ci riferiamo alle vittime del burn out che hanno dato anche se non ci riescono più. Purtroppo di tali mele ce ne sono, forse non così tante, ma fanno un danno incredibile a tutta la categoria. Come mai? Gli allievi pagano il prezzo di scelte personali sbagliate e la scuola pure. E non è giusto.