Fabio Camponovo, laRegione, 3 marzo 2015
In una bella intervista rilasciata nel 2010 agli studenti universitari dell’Azione Cattolica, Sergio Mattarella, il nuovo presidente della Repubblica italiana, si sofferma su un concetto semplice e insieme intriso di senso: “La cultura e l’educazione sono libertà”. Non è uno slogan vetusto, bensì un auspicio programmatico riferito al contesto educativo. Mattarella sviluppa alcune considerazioni personali che meritano attenzione: “Credo che il bombardamento commercializzato di modelli di vita a cui oggi siamo sottoposti, abbia agevolato, accresciuto, se non la tendenza, il pericolo dell’abbassamento dei valori di riferimento; abbia accentuato il pericolo del conformismo... Io credo che la cultura sia un antidoto a questo conformismo, a questo subire passivamente modelli di vita trasmessi per motivi commerciali. Gli studi a scuola, e ciò che dovrebbe derivarne, e che generalmente ne deriva (la forza culturale, la capacità critica, la libertà di giudizio), difendono la libertà di ciascuno e quella comune”. Quasi a dire: finalità della formazione, garanzia dell’emancipazione e dello sviluppo personale, radice dell’identità... è la cultura. E lo scopo della scuola, anzi dell’istituzione scuola è appunto riassumibile in questo: essere scuola di cultura. Mi paiono concetti facilmente condivisibili e, spero, condivisi, che tuttavia vale la pena fare riemergere soprattutto in tempi in cui si fa un gran parlare di scuola delle competenze e si ri?ette un po’ meno, in verità, sulla pregnanza del sapere scolastico. Potrebbe essere agevole partire da questi assunti per ragionare pacatamente attorno ai destini futuri della nostra scuola. La domanda che sorge spontanea è questa: la nostra scuola oggi sa ancora essere scuola di cultura? Lo saprà essere in futuro? I nostri insegnanti sanno essere maestri e insieme persone di cultura? Li sapremo formare per questo scopo? Le questioni sono, a mio parere, ineludibili e fors’anche imperative se consideriamo il contesto etico e civile dentro il quale ci si trova a lavorare in educazione.
La dimensione culturale trascurata
Se un merito va riconosciuto all’attivismo del Decs di questi ultimi tempi (legge sulla Formazione continua dei docenti, nuovi Piani di studio per la scuola dell’obbligo, implementazione del concordato HarmoS, documento sul Profilo professionale dell’insegnante ticinese, progetto di riforma denominato “La scuola che verrà”) è proprio quello di avere riportato l’attenzione pubblica sulla scuola. È un merito indubbio! Se c’è un difetto invece è quello di avere ignorato, o forse involontariamente trascurato, la dimensione culturale del tema. Non vorrei essere frainteso. A mio giudizio ogni progetto di riforma, ogni intenzione pedagogica seria non può eludere la domanda relativa al senso attuale e futuro della scuola. Non può sfuggire all’implicazione etica e culturale che l’istituzione scolastica pone come fondamenta del suo stesso esistere in qualità di “istituzione”. Nell’opuscolo presentato dal Decs alla fine dello scorso anno, significativamente intitolato “La scuola che verrà”, il lettore trova parecchi motivi di interesse: vi si presentano i principi di una riforma che intende “abbandonare alcuni rigidi schemi del passato” (M. Bertoli, nella prefazione), che riafferma convintamente i valori di inclusione ed equità, che “migliori anche gli esiti formativi”, ma che quasi nulla dice del senso degli studi, del valore attuale e futuro dello sforzo educativo. Sarà perché è scontato? Perché è implicito? L’intervento di Mattarella non sembra dare nulla per scontato e ci invita a una contestualizzazione storico-pedagogica che a me appare quanto mai opportuna. Pensiamo ancora che il percorso scolastico debba essere modulato in rapporto all’incontro con quei quadri epistemologici disciplinari che fondano storicamente il nostro pensiero, la nostra cultura? Forse no, forse sì, forse...
Scarsa attenzione a contenuti e senso
La riforma ticinese intende essere sostanzialmente “pedagogico-organizzativa”, tesa a ridisegnare le forme didattiche, a rinnovare l’impostazione metodologica. Il motivo della differenziazione (pedagogica ma anche strutturale!) fa da trama legittimante del progetto. Le parole d’ordine sono quelle della “pedagogia differenziata”, della “personalizzazione”, delle “forme didattiche differenziate” (lezioni, laboratori, atelier, giornate progetto), delle “modalità della valutazione”, della “cultura collaborativa all’interno del sistema formativo”. Tutte dimensioni – sia chiaro – importanti e fors’anche determinanti. Ma scarsa, quasi nulla come si diceva, è l’attenzione ai contenuti e al senso. Molte voci in questi ultimi decenni hanno rilevato un progressivo moltiplicarsi delle responsabilità educative che la scuola dell’obbligo si è accollata. Non pochi hanno segnalato il rischio che questo aggravio potesse accompagnarsi a un contemporaneo svilimento del significato formativo delle discipline di studio. Altri hanno cercato di ragionare su quanto possa essere “centrale” il sapere e l’afflato culturale nei processi educativi. Altri ancora hanno denunciato il rischio che l’abbondanza di mandati finisse per trasformarsi in una volatilità degli esiti (in stile “usa e getta”). Fino a oggi abbiamo creduto in una scuola che fosse sede di una processualità cognitiva, lenta, faticosa, persino laboriosa, che sviluppasse un pensiero logicoconsequenziale e fosse sede strutturante di pensiero più che di azione. Abbiamo pensato che questa fosse la nostra scuola e, in particolare, la scuola dell’obbligo. Oggi, confrontati con l’impressionante sviluppo delle nuove tecnologie e di nuovi paradigmi di appropriazione della conoscenza, questa scuola ha ancora una ragione d’essere? Personalmente non ho risposte sicure: ho convinzioni, non certezze. Sento però un estremo bisogno di dibattito, di riflessione, di confronto di idee. L’affermarsi prepotente di un consumismo informativo e formativo costringe la scuola a riposizionarsi o per lo meno a interrogarsi sulla natura del suo statuto formativo. Mi sarei aspettato che questo tema avesse un’importanza riflessiva nella definizione di una scuola del futuro. Ma non è così. A leggere il fascicolo del Decs ci si convince che ormai il dado è tratto, in maniera spiccia. Il punto di riferimento sono le indagini comparative Pisa (che nessuno intende sottovalutare, ma dove ovviamente si misura ciò che è misurabile, non necessariamente ciò che conta per la persona e per il suo radicamento culturale). L’insegnamento per competenze, in ossequio a una globalizzazione dei sistemi formativi, è l’ossatura del futuro modello. L’offerta opzionale (con il rischio di un modello “à la carte”) è la novità calata fin dentro l’obbligo scolastico. La trasversalità è un valore intrinseco. “La scuola che verrà” evacua il tema della cultura in educazione. E questo non è un bene.