L’articolo pubblicato su questo giornale lo scorso 11 novembre intitolato ‘Quando suona la campanella’ contiene alcune affermazioni che riguardano la scuola e l’educazione sulle quali vorrei ritornare brevemente.
La prima affermazione esprime sostegno alla convinzione dei genitori secondo cui, se il proprio pargolo riuscirà un domani ad avere perlomeno una maturità in tasca, avrà qualche difficoltà in meno ad affacciarsi sul duro mondo del lavoro e la sua giungla. Ne siamo davvero sicuri? La realtà della Svizzera mostra piuttosto una buona riuscita professionale anche per chi, ed è la maggioranza, sceglie una strada diversa dalla cosiddetta via degli studi (maturità e università), ovvero la strada della formazione professionale. Non solo. Dati molto seri ci segnalano come sono proprio alcune competenze professionali a mancare nel nostro Paese e nel nostro cantone, obbligandoci tra l’altro a ricercare anche manodopera qualificata dall’estero. Una situazione che ci viene ricordata di quando in quando anche dal mondo economico. Certamente devono essere gli allievi e i loro genitori a scegliere la strada migliore per il futuro, ma credo sia utile e opportuno uscire dall’idea, molto latina, secondo cui il successo è dato solo e soltanto da un titolo universitario.
La seconda affermazione sembra invece tracciare una connessione diretta tra la capacità dei docenti di insegnare e il volume del fenomeno delle lezioni private, sostanzialmente misurando con la quantità delle seconde la dimensione della presunta carenza degli insegnanti. Il legame tra le due cose è più complesso.
Certamente vi sono famiglie che fanno capo a lezioni private in seguito a deficit nell’insegnamento, ma ve ne sono anche molte che usano questo sistema di ‘outsourcing’ di un dovere familiare come investimento nella formazione dei figli, a prescindere da vere o presunte difficoltà scolastiche di questi ultimi o di carenze effettive dei docenti. Dico questo non per sfuggire al monito dello studio appena pubblicato, al quale farà presto seguito la pubblicazione di uno studio ticinese ad hoc da parte del Centro Innovazione e Ricerca sui Sistemi Educativi (Cirse) di Locarno, ma per segnalare come la realtà sia piuttosto multiforme e, purtroppo, non sempre traducibile in sillogismi.
Sulla terza affermazione concordo pienamente: è importante che la scuola abbia docenti in gamba. Capaci di insegnare e di realizzare anche l’alto obiettivo di riuscire a offrire a tutti le medesime possibilità di successo quando si è ai box della vita. Voglio qui cogliere l’occasione per dire, o ribadire, che la stragrande maggioranza dei docenti ticinesi è in gamba, fa bene il proprio lavoro e onora con professionalità il mandato ricevuto. Si tratta di oltre 5’000 persone attive nei vari ordini di scuola che ogni tanto anche la società dovrebbe ringraziare. Anche in questo settore, purtroppo, vale però il detto secondo cui fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce.
La scuola deve certamente saper affrontare i casi di docenti non all’altezza, con il concorso di tutte le figure che hanno competenze in questo ambito e con sistemi di gestione che vanno sempre più affinati.
In questi quasi quattro anni sul mio tavolo sono transitati alcuni dossier inerenti a questi aspetti, incarti delicati, sgradevoli da decidere, ma sempre trattati nel segno del diritto dei ragazzi e delle ragazze a una scuola di qualità. Questi pochi casi vanno gestiti, affrontati e decisi con oggettività, senza tentennamenti, ma non devono gettare ombre sul grande lavoro di molti operatori scolastici che sanno quel che fanno e che lo fanno bene.