La consultazione popolare di dieci anni fa non ha avuto solo il merito d’aver consentito ai ticinesi di ribadire con chiarezza il concetto della centralità della scuola pubblica e della sua rilevanza civile. Al di là della contingenza, cioè di dover dare una risposta ad un quesito preciso che era stato posto, quella votazione è stata assai utile anche perché ha saputo suscitare nel Paese una riflessione attorno ad una delle Istituzioni più importanti dello Stato.
Il dibattito che accompagnò la votazione fu infatti assai vivace e ampio, e non si fermò in modo esclusivo attorno al finanziamento o meno delle iniziative d’insegnamento privato con i soldi dell’intera comunità, toccando pure altri ambiti di carattere più generale: le finalità ideali, sociali e culturali della scuola, gli orientamenti pedagogici che ne determinano le scelte operative, la necessità di potenziare i servizi aggiuntivi, il ruolo del corpo insegnante e la sua capacità di stare non solo al passo con i tempi sul piano didattico, ma anche di riuscire a farsi carico di problemi nuovi che sono loro posti dai profondi cambiamenti del nostro tessuto sociale. La discussione fu animata non solo dagli addetti ai lavori (che per altro sono stati molto attivi), ma anche da tante persone che, pur lontane dalle aule, hanno voluto comunque esprimere le loro opinioni in merito, i loro suggerimenti, i loro auspici. Si è trattato, insomma di un vero “forum” democratico aperto e costruttivo, dal quale la nostra scuola è uscita indubbiamente rafforzata, non fosse altro che sul piano dell’immagine e della consapevolezza collettiva che essa – pur con tanti difetti - rappresenta una grande ricchezza per il Paese.
Va da sé che non è possibile allungare nel tempo una simile concentrazione d’attenzione, che non è possibile immaginare di mantenere sempre accessi con tale intensità i riflettori su un tema preciso e per di più tanto delicato come quello che qui oggi ci interessa, e questo soprattutto in una realtà sempre più frettolosa e distratta, persino nevrotica nel rincorrere l’effimero, appiattita sulla quotidianità e disattenta alle visioni di più ampia portata. E’ però certo che quanto accaduto un decennio fa è servito da stimolo per l’Associazione per la scuola pubblica – che ho avuto l’onore di presiedere alcuni anni – per continuare a riflettere pubblicamente attorno ai temi che allora furono da più parti evocati. Un indirizzo favorito da una costatazione non irrilevante: d’essere un insieme composito ed eterogeneo di persone legato non da interessi particolari, di categoria, ma provenienti da visioni culturali e professionali diverse, tutte accomunate però da un unico e solidale interesse, quello di offrire un contributo non effimero alla crescita della scuola quale servizio pubblico, e alla promozione e alla difesa dei suoi valori nella nostra società civile.
Non tocca ovviamente a me trarre un bilancio critico di ciò che in questi anni si è riusciti a fare in questa direzione. Posso dire però – come è testimoniato dalle molte prese di posizione adottate - che non si è mancato di monitorare in maniera costante i problemi che man mano si sono presentati, seguendo anche le discussioni che si sono sviluppate nell’ambito parlamentare.
Si è riflettuto ad esempio sulla posizione professionale dei docenti – pur senza assumere una visione sindacalista, che non appartiene all’Associazione - e soprattutto si è approfondito il tema degli indirizzi e della sorte dell’Istituto che li abilita all’insegnamento, “nodo” questo che tuttora non può non destare preoccupazioni e interrogativi concreti. Si è parlato di Harmos e della politica che a livello federale si sta conducendo per uniformare e anzi cancellare, unendole in una visione centralista naturalmente dettata dai più forti, le particolarità e le tradizioni formative dei singoli Cantoni, difendendo in questo contesto le scelte d’indirizzo storiche del Ticino e le sue specifiche esigenze di minoranza culturale. Ci si è occupati dell’esito delle discutibilissime (e perniciose, aggiungo io) indagini “PISA”, che purtroppo sempre creano smarrimento nell’opinione pubblica anche per i modi con i quali non solo vengono ideate e costruite, ma anche per come i risultati che ne escono vengono diffusi e comunicati.
Non è stato scordato poi il tema della violenza giovanile, che preoccupa perché specchio di un contesto sociale malato, incapace di gestire i disagi di ragazzi spesso abbandonati a sé stessi. Nessuno può scordare che, di fronte alla latitanza di molte, troppe famiglie, la scuola deve essere il luogo in cui ancora si trasmette la coscienza dell’importanza di saper parlare, di leggere e scrivere, e del gusto di farlo: una premessa essenziale per riuscire a scegliere e ad usare la forza del dialogo, per saper elaborare e trasmettere idee, per convincere gli altri nel segno dell’intelligenza e del ragionamento. Altrimenti l’alternativa finisce con l’essere il ricorso sbrigativo al calcio, al pugno, alla violenza insomma, ed è cosa che in alcun modo possiamo permetterci.
L’Associazione in questi anni si è pure occupata della nostra università, fiore all’occhiello politico di un sistema che dalla scuola dell’infanzia si è voluto completare sino al grado accademico. Non è stato facile farlo, perché purtroppo le chiusure al riguardo sono state tante, quasi si volesse mettere il naso senza diritto alcuno in un universo a sé stante, intoccabile. L’abbiamo fatto in modo assolutamente costruttivo e pubblicamente, promovendo un convegno svoltosi in tutta serenità (come è ben provato dalla pubblicazione degli atti relativi) nel 2005, senza scordare un principio che deriva da una constatazione: se l’USI è un bene prezioso per l’intero Paese – come in effetti è e deve essere – non può prescindere dall’accettazione di un’osservazione anche critica da parte dei cittadini dello Stato che l’ha ideata e voluta.
Un ulteriore tema affrontato positivamente dall’Associazione – particolarmente caro all’amico Mario Forni che per primo l’ha presieduta e la cui figura tengo qui a ricordare con riconoscenza ed affetto – è legato all’insegnamento della religione nella scuola pubblica. Se è vero che viviamo in una realtà manifestamente sempre più multiculturale e multietnica (basti rammentare che quasi il 26 per cento delle persone residenti in Ticino non è di nazionalità svizzera), è altrettanto vero che questa mescolanza tocca anche la sfera delle credenze, delle confessioni, con tutto ciò che ne discente sul piano anche spicciolo delle usanze e dei costumi. Il quesito che è stato posto di fronte a tale constatazione è semplice: è ancora possibile che la scuola ignori questa complessità continuando solo ad offrire un genere d’insegnamento dei fenomeni religiosi di natura (o perlomeno d’etichetta) confessionale e per di più solo opzionale? Non sarebbe meglio aprire questo orizzonte conoscitivo a tutti, ampliando tuttavia l’angolo d’osservazione in termini storico-culturali? E’ in questa direzione che l’Associazione si è mossa, ponendo in sostanza le premesse – tramite un’iniziativa parlamentare – per giungere ad una sperimentazione in tal senso che è appena iniziata. Nessuno può dire che frutti darà. Il mio auspicio è che un simile approccio più dinamico e appunto culturale, possa contribuire ad attutire su questo fronte delicato una situazione d’ignoranza purtroppo diffusa.
Parlare di questo significa anche parlare di integrazione, perché essa passa inevitabilmente attraverso le aule scolastiche. Integrazione quale strumento di convivenza con chi viene dal di fuori, da realtà sempre più lontane e diversificate e abita in mezzo a noi con altre mentalità e altri bagagli culturali. Integrazione però anche fra svizzeri, fra ticinesi, perché non siamo tutti uguali: le disparità esistono ovunque, anche fra di noi, e sono più di quel che si pensa o si è tentati d’immaginare. La nostra scuola pubblica – bisogna ammetterlo – è sinora stata esemplare a questo proposito: ha sempre cercato di non emarginare nessuno, ha costruito un modello il più possibile elastico, in cui ogni ragazzo ha potuto trovare la sua via formativa, senza essere precocemente “messo da parte” (come invece avviene palesemente in molti altri Cantoni). E’ una via difficile, ma profondamente civile, profondamente democratica. Sappiamo tutti quante sono le difficoltà che caratterizzano il funzionamento, ad esempio, del nostro settore medio, eppure credo che rimetterne in discussione oggi l’impalcatura esiziale sarebbe cosa improponibile, a meno che non si voglia ribaltare la gerarchia dei valori che hanno fatto crescere sin qui il Paese. La ricerca del miglioramento, l’ambizione di cercare l’eccellenza, è l’obiettivo che dobbiamo porci, non certo quello di smantellare o snaturare l’essenza di ciò che è stato costruito.
Diciamo la verità: se la votazione di dieci anni fa ha messo – almeno politicamente - nel cassetto dei sogni le idee legate ad una visione liberista della formazione, e ha spento così alcune fastidiose velleità (ma facciamo attenzione: la brace cova sempre sotto le ceneri), ha aperto in ogni caso un fronte d’impegno che sarebbe molto grave ignorare o non tener sempre vivo. Il mandato popolare quel giorno è stato molto chiaro e non può essere disatteso: primato del servizio pubblico – certamente – ma a condizione che sappia stare al passo con i tempi, che sappia riformarsi senza snaturare la sua essenza solidale, che sappia offrire davvero ai giovani gli strumenti essenziali per affrontare il loro cammino con un bagaglio conoscitivo essenziale e di base da porre negli zainetti che li accompagneranno nella vita.
Quel personaggio formidabile che fu don Lorenzo Milani, quando parlava di scuola – della sua, tutta particolare, ma anche quella di tutti gli altri – usava spesso un termine che a me pare essenziale: passione. Ci vuole passione – diceva - per insegnare e pure per apprendere. Ci vuole passione – aggiungo io – anche sul fronte dell’azione politica quando si affrontano i temi che qui ci stanno a cuore e che si sono ricordati. E’ probabile che si possa anche far senza, ma è parimenti probabile che non si andrebbe lontano.