Di questi giorni è
l'uscita nelle librerie del volumetto di Daniele Besoni Gli economisti
e la scuola. Breve rassegna sull'economia dell'educazione, edito dalla
giovane casa editrice bellinzonese “Messaggi brevi”. In una sessantina
di pagine, l'autore ripercorre le riflessioni che gli economisti classici
e contemporanei hanno elaborato sul ruolo economico dell'insegnamento e
sullo spinoso problema del suo finanziamento.
Come l'autore ricorda nell'Introduzione,
i cinque capitoli che compongono il libro sono stati pubblicati tra
il maggio ed il giugno dello scorso anno sul settimanale Azione e, dunque,
sono stati scritti senza riferimento al corrente dibattito in vista della
votazione del 18 febbraio. Non possiamo che caldamente consigliare di (ri)leggerli,
al fine di meglio cogliere l'unità nello sviluppo dell'argomentazione
dell'autore ma, soprattutto, in quanto rappresentano un contributo di indubbia
qualità ad un dibattito che di qualità, talvolta, difetta.
Alcune opinioni apparse recentemente, ad esempio quelle che fanno capo
ai presunti vantaggi di un sistema concorrenziale, trovano in questo volume
un'indispensabile contestualizzazione storica e analitica. Besomi è
un ricercatore internazionalmente riconosciuto –a febbraio terrà
la lezione d'onore al congresso annuale dell' European Society of the History
of Economic Thought– e lo stile accessibile del suo scritto non toglie
alcunché al rigore scientifico.
L'autore inizia col ricordarci
che la scuola di massa è un'istituzione dell'Ottocento e che risponde
alla domanda di istruzione connessa ad un nuovo clima culturale e proveniente
da ampi settori della popolazione. Gli economisti classici –che vivevano
appunto tra il XVIII e il XIX– erano testimoni di questa nuova tendenza
e parecchi di loro la commentarono. Pur essendo in maggioranza fautori
del non intervento dello Stato nell'economia, per l'insegnamento facevano
un'eccezione. Per Adam Smith (1776) la ragione del trattamento diverso
dell'istruzione rispetto ad altri beni, nella produzione e nello scambio
dei quali lo Stato deve assolutamente evitare d'interferire, risiede nel
fatto che la sua (non) acquisizione comporta dei benefici (costi) non solo
per l'individuo, ma per l'intera comunità. Un secondo argomento,
introdotto da John Stuart Mill (1869), rileva che l'acquirente del servizio
‘istruzione’ è essenzialmente ignorante sulla prestazione offerta,
per cui non può scegliere con cognizione di causa tra offerte educative
alternative.
Il terzo capitolo si situa quasi
un secolo dopo: la neonata economia dell'educazione riprende gli argomenti
dei classici all'interno di un ambito teorico nel quale l'educazione è
vista come un investimento che permette la formazione del capitale umano.
Il ruolo economico dell'educazione consisterebbe allora nell'aumentare
la produttività del lavoro, sennonchè gli studi empirici
non confermano tale legame.
Partendo da questi risultati negativi,
nel quarto capitolo l'autore presenta una diversa linea teorica che situa
la funzione economica dell'educazione nella preparazione ai ruoli produttivi
(lavoratori, dirigenti, …) o di graduatoria nella selezione del personale
da assumere. L'autore mostra che, anche da questo punto di vista, non è
corretto concludere a favore della riduzione del finanziamento collettivo
dell'educazione in quanto le conoscenze indispensabili per svolgere un'attività
produttiva continuano ad aumentare.
Al tema del finanziamento della
scuola Besomi dedica l'ultimo capitolo, affrontando direttamente argomenti
che sono ricorrenti anche nell'attuale dibattito politico. La prima constatazione
è che “in paesi nei quali si opta per una bassa qualità dell'insegnamento
pubblico –cui naturalmente corrispondono costi molto minori– si aprono
consistenti nicchie di mercato per scuole private, permettendo un insegnamento
a doppia velocità” (p. 40). Viene allora da dire che il distogliere
risorse dalla scuola pubblica per finanziare quella privata innesca un
meccanismo di squalifica progressiva della scuola di tutti e apre la strada
ad un sistema scolastico a due velocità, che proprio non si vede
come possa essere di beneficio per i meno abbienti.
Infatti, Besomi mostra chiaramente
che la credenza secondo la quale la concorrenza tra le scuole migliorerebbe
il livello generale dell'insegnamento ed eviterebbe le rigidità
inerenti al monopolio statale (imposizione della sede, docenti demotivati
e anche inadatti) non è fondata. Se da un lato, i limiti ‘burocratici’
della scuola pubblica non sono certo irrimediabili, dall'altro, è
nell'analizzare gli esiti di un eventuale ‘mercato dell'istruzione’ che
l'autore dimostra come il rimedio sia peggiore del male. Tale mercato non
potrebbe infatti assicurare, in nessun caso. l'efficacia allocativa delle
risorse, ma genererebbe altre inefficienze e nuove iniquità.
L'educazione è un bene collettivo
(Smith); l'equilibrio tra la domanda e l'offerta è viziato dall'asimmetria
d'informazione (Mill), ma anche dal fatto che il servizio ‘educazione’
diventerebbe estremamente eterogeneo e dai problemi di localizzazione geografica;
il finanziamento non può effettuarsi in maniera efficace (nell'ambito
della teoria del capitale umano) e, dal momento che la scuola pubblica
non disporrebbe più di mezzi sufficienti, la selezione avversa degli
studenti (la scuola pubblica si ritroverebbe con le situazioni più
difficili e con meno risorse) la condurrebbe allo sfascio. Infine, affinché
ci sia concorrenza occorre … un numero sufficiente di concorrenti. Se le
proiezioni per le metropoli americane non danno esiti certi (anche nello
scenario più favorevole alle scuole private), immaginiamoci in Ticino.
Tutte queste caratteristiche del servizio ‘educazione’ decretano l'inefficienza
di un eventuale mercato.
Se si raccomanda la lettura del
libro di Besomi è anche perché ha considerato proprio gli
autori classici ai quali il liberalismo economico è solito far riferimento
per giustificare la propria fede incondizionata nelle forze spontanee del
mercato, e quelle correnti contemporanee che di questo liberismo sono fautrici.
Le conclusioni sono così più ‘robuste’ e convincenti.
Ci sembra che l'appello alla concorrenza,
certo molto suggestivo anche se un po' consunto, privato del fondamento
nella scienza economica, orfano di una giustificazione ‘scientifica’, viene
ricondotto alla sua funzione squisitamente ideologica. Se vi sono ragioni
a sostegno dell'iniziativa e/o del controprogetto, di certo non consistono
nella loro efficacia economica.