ASSOCIAZIONE PER LA SCUOLA PUBBLICA DEL CANTONE E DEI COMUNI IN TICINO


Per una futura difesa della scuola
(Piccola esortazione)


Vorrei cominciare leggendo un brano sorprendente, che forse alcuni dei presenti già conoscono, ma che io penso sia necessario e salutare rileggere o riascoltare spesso (anche se ogni volta che mi capita di citarlo c’è evidentemente qualcuno che si irrita molto). È un brano scritto nel 1950 da Piero Calamandrei, per il III Congresso in difesa della Scuola nazionale, svoltosi a Roma l’11 febbraio di quell’anno. Da quel 1950 di anni ne sono passati più di sessanta, ma le parole di Calamandrei fanno venire i brividi anche oggi. Eccole:

«Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa può fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito?
Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali.
C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire la scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori, si dice, di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, o si propone di dare dei premi, a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio.
Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta.
Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.»

Questo brano dice molte cose, che possono riguardare anche noi, oggi. Uno scrittore italiano contemporaneo, Franco Buffoni, l’ha infatti recentemente riproposto in un suo libro polemico (Laico alfabeto in salsa gay piccante, Transeuropa, Massa, 2010); e dopo averlo offerto ai suoi lettori così lo commenta, alla luce dell’attuale, desolante politica scolastica italiana:

«Dopo aver letto queste parole si può ben comprendere la politica scolastica dei nostri attuali politicanti, con lo storno delle poche risorse disponibili verso la scuola privata (al 90% clericale); e la scomparsa dei posti di ricercatore in università. Distruggete le centrali elettriche e avrete il buio subito; distruggete scuola laica e ricerca, e il buio totale delle coscienze e delle intelligenze lo avrete dopo qualche anno.»

Di fronte a queste amare considerazioni, noi, riuniti a Bellinzona per festeggiare un’associazione nata proprio attorno alla difesa della scuola pubblica, potremmo essere tentati di provare una certa soddisfazione: in Ticino le cose vanno diversamente, e vanno diversamente anche perché un certo referendum ha eretto un argine contro le derive più pericolose di cui parla appunto Buffoni. Io però temo che le cose siano più sottili, e che nelle parole di Piero Calamandrei si possa cogliere più di un rischio che riguarda anche noi, qui, oggi, e che non proviene soltanto dalle minacce esterne che per il momento siamo stati in grado di sventare. Temo infatti che la nostra scuola pubblica sia in notevole affanno, e che occorra riflettere bene sulle sue attuali difficoltà, per evitarne un peggioramento, un’erosione, un’implosione che finirebbero per giungere, in modo diverso, allo stesso risultato paventato da Calamandrei. E credo dunque che anche in un’occasione tutto sommato festosa come quella odierna sia necessario rimanere vigili, e dire chiaramente che la scuola oggi ha bisogno di aiuto da parte di tutti, di sostegno, di riflessione e di rispetto. E di critica, anche: perché molti sono gli aspetti della scuola che si possono e si devono criticare, e possibilmente migliorare.

Da dove cominciare, dunque, un discorso così complesso? Forse, da una proposta: teniamo pure da conto le buone ragioni di soddisfazione; diciamoci pure che nel complesso la scuola ticinese continua a essere una delle cose migliori che questo contraddittorio paese ha saputo produrre; appendiamo su una parete della nostra memoria la fotografia dei tanti nostri studenti che hanno grazie alla scuola saputo costruirsi uno sguardo sul mondo e un futuro non disprezzabile. Facciamo tutto questo, ma poi parliamo delle cose che non vanno così bene.

E la prima di queste cose, secondo me, è che abbiamo perduto l’entusiasmo.

La scuola va avanti, certo; ma al suo interno si respira da tempo una certa stanchezza, una certa rassegnazione, un certo fatalismo. Gli insegnanti sono stanchi e sfiduciati; le loro condizioni di lavoro sono andate aggravandosi enormemente negli ultimi decenni (chiunque abbia un minimo di conoscenza diretta dell’universo giovanile e delle condizioni familiari contemporanee non può onestamente mettere in dubbio una simile constatazione), mentre il loro prestigio sociale e il loro stipendio sono andati progressivamente erodendosi, e tra poco potrebbe toccare anche alla loro pensione. Quelli più anziani cominciano a non reggere più agevolmente il peso della responsabilità e della fatica crescente; quelli più giovani sono svantaggiati finanziariamente e spesso spaesati: hanno studiato, hanno dovuto sobbarcarsi una formazione pedagogica lunga e a dir poco discutibile (e invece assai poco discussa, assai poco criticabile), e ora si trovano confrontati, quando hanno fortuna, con una realtà ben più difficile e complessa, con il peso delle correzioni, con i dubbi sul senso dell’insegnamento, sul senso della scuola; e, diciamolo pure, con uno stipendio non eccezionale. Tanto è vero che per alcune materie scolastiche cominciano da qualche tempo a scarseggiare i candidati, e soprattutto i candidati che scelgono di insegnare per una reale passione, per un reale interesse, e che amano tanto la loro disciplina di studio quanto la possibilità di diffonderne realmente la conoscenza tra i giovani studenti. Chi può fare altro, c’è da temere, sta cominciando a valutare opportunità migliori e forse più vantaggiose, in termini di retribuzione, di carriera, di prestigio. Persino la femminilizzazione della professione, che naturalmente è anche il segno positivo di una emancipazione culturale, può essere letta con un poco di preoccupazione: in molti casi, l’insegnamento sta forse diventando, come è già diventato in altri paesi, la professione delle mogli, il cui marito o compagno si occupa di attività più remunerative e più socialmente considerate.

La scuola va avanti, certo, ma con il fiato corto, e nascondendo la polvere e l’ombra sotto il tappeto ufficiale del buon funzionamento di superficie.

C’è una polvere che è un prodotto di ciò a cui accennavo poco fa: il peggioramento oggettivo delle condizioni di lavoro non può infatti che condurre a un’atmosfera più cupa. Ma ci sono una polvere e un’ombra che nascono dall’interno, da un logorìo più sottile, più profondo e meno visibile; e purtroppo oggi questa polvere e quest’ombra mi appaiono cresciute in modo inquietante; tanto cresciute, in qualche caso, da oscurare l’orizzonte, e da far perdere di vista il grande ideale che deve esistere dietro l’impresa scolastica. Perché questo dovrebbe forse essere la scuola: il luogo complesso in cui una società umana prova a realizzare un grande ideale, al quale non è facile dare un nome senza scadere nella peggiore forma di retorica. Ma si può almeno dire che in questo grande ideale convergono molte linee di forza, molte direzioni di marcia: l’idea di giustizia, per esempio, quella di uguaglianza; il desiderio della conoscenza che ci deve aiutare a formare un pensiero critico, a diventare maggiorenni in senso kantiano; il tentativo, non importa quanto utopico, di offrire a tutti gli studenti molte possibilità, molte opportunità; a quelli più maturi, più pronti a camminare da soli lungo le vie della conoscenza; a quelli ancora impacciati, che vanno guidati e incoraggiati; ai più fortunati e ai più miseri, nella convinzione che ciascuno possa crescere interiormente e intellettualmente, e che il percorso di crescita valga infinitamente più del risultato raggiunto, perché la verità sta nel cammino e non nella meta. La scuola ticinese ha conosciuto profondamente questo ideale; e proprio su questo ideale, che si può formulare ed è stato formulato in molti modi diversi, è nata, è cresciuta e si è modificata nel tempo, dall’epoca di Franscini a quella di Franco Lepori, dalla creazione della scolarità pubblica obbligatoria all’invenzione della Scuola media unica.

Cosa ne è, oggi, di questo ideale? Lo riteniamo ancora valido, o comincia a cedere sotto l’usura del tempo? Se è ancora valido: vive ancora, con intensità e speranza, nelle aule e nei corridoi delle scuole, o sta mestamente languendo? Se non è più del tutto valido: con cosa vogliamo sostituirlo? Un’altra domanda inquietante: la scuola, il tipo di scuola che abbiamo sin qui considerato tanto importante, è ancora lo strumento più adatto per formare i ragazzi? Le ore e ore di lezione, e le molteplici materie, con cui ci sforziamo di educare gli studenti: servono ancora realmente, oppure stanno diventando un simulacro di educazione, una freccia spuntata contro il muro del disinteresse e della mutata capacità di concentrazione?

Difendiamo la scuola pubblica: certo. Ma quale? e perché?

Di queste cose, purtroppo, non si parla da molto, da troppo tempo. Si va avanti giorno per giorno, anno per anno, e la scuola certamente funziona, come un organismo che può sopravvivere a lungo; ma l’assenza di ideale, o almeno il suo affievolirsi, logora il nostro lavoro, ci allontana gli uni dagli altri, ci fa diventare sempre più solitari, irrigiditi in un ruolo che cominciamo a recitare in maniera ripetitiva. Senza un grande ideale comune, la scuola diventa un esamificio, l’educazione si trasforma in istruzione tecnica, l’insegnante in un ripetitore di nozioni o, quando non vuole cedere allo scoraggiamento, in un patetico relitto, come ogni tanto ho paura di essere anch’io.

Interrogativi di questa natura possono e devono essere formulati per ogni settore scolastico; ma mi sembrano assumere un’urgenza addirittura drammatica nel delicatissimo territorio della Scuola media ticinese, che del nostro sistema scolastico è l’anello centrale, e poggia sul sogno educativo forse maggiore prodotto nel nostro cantone da mezzo secolo in qua; perché il mio grande timore è che oggi la Scuola media sia davvero in gravissima difficoltà, e nel contempo non trovi in sé la forza né di reagire né di mettersi in discussione dichiarando in modo esplicito gli ostacoli che non riesce forse più a fronteggiare. Non ci vuole molto a snocciolare un bel po’ di domande che fanno male. Eccone alcune. La scuola media riesce ancora a preparare gli studenti che continueranno a studiare? E, cosa anche più importante: la scuola media riesce a garantire a quella maggioranza di ragazzi che invece si indirizzerà verso un apprendistato una cultura di base dignitosa e capace di crescere nel tempo, anche al di fuori della scuola? Poi: la scuola media, sotto la bella bandiera dell’integrazione, offre davvero a tutti le stesse opportunità, oppure stabilisce già molto presto, senza dichiararlo e quasi involontariamente, l’elenco dei buoni e quello dei cattivi?

Un’altra questione centrale si sta da qualche tempo delineando all’orizzonte, portata da venti che giungono da lontano, cioè dalla Confederazione e addirittura dall’Europa; e neppure di questo si discute come sarebbe necessario. Mi riferisco a qualcosa che è nell’aria da tempo, e che comincia a delinearsi meglio e a diventare sempre più preoccupante: insieme alla relativamente banale armonizzazione dei sistemi e dei calendari scolastici, infatti, il progetto Harmos sta portando con sé l’idea degli standard formativi, già più o meno in funzione per alcune discipline e per alcuni settori scolastici. Poiché non è questa la sede per entrare troppo nei dettagli, basterà dire che a fronteggiarsi sono due concezioni molto diverse dell’insegnamento, dell’apprendimento e della cultura. Infatti, l’idea degli standard misurabili e certificabili (un po’ sul modello dei portfolio linguistici) sposta inevitabilmente la barra verso una direzione molto tecnica in ogni materia, a scapito del più sfuggente, meno definibile e ai miei occhi tanto più importante orizzonte culturale. È questa, lo sappiamo bene, una tendenza europea, che si è già insinuata ampiamente nelle maglie dei sistemi scolastici, e di cui sarebbe ora di parlare con chiarezza e attentamente: si tratti di imparare le lingue straniere o di cimentarsi con le scienze e con la matematica, la questione di fondo non cambia molto; bisogna scegliere se privilegiare lo sviluppo di una competenza soprattutto tecnica, verificabile con appositi test e definibile in termini di precisi obbiettivi (tecnici, appunto) da raggiungere, o se insistere maggiormente sul significato fondamentalmente culturale e conoscitivo della disciplina, sulla graduale crescita interiore dello studente. Sono in gioco due diversi modelli di cultura, e dunque di scuola; e anche se naturalmente entrambi i modelli sono più sfumati e passibili di essere almeno in parte riavvicinati l’uno all’altro, non c’è dubbio sul fatto che siamo davanti a un interrogativo molto importante e gravido di conseguenze.

E allora si potrebbe concludere con l’auspicio che proprio un’Associazione come quella che oggi viene festeggiata, un’Associazione che è vicina alla scuola ma che non raccoglie in sé soltanto insegnanti, abbia la volontà e la capacità di aprire un vero, largo dibattito sul modello di scuola che oggi vorremmo non solo difendere, ma anche e soprattutto sviluppare e far crescere. Forse, un segnale di questo tipo, lanciato in modo positivo e concreto dall’esterno, saprebbe ridare un po’ di slancio a quella classe magistrale che ha saputo in passato trovare in sé tante energie, e che oggi è sul punto di cedere allo sconforto e alla routine. Aprire una profonda e pubblica riflessione sulla scuola e sull’educazione forse oggi sarebbe il modo migliore di esprimerle sostegno e fiducia, e di regalare a tutti noi, che nella scuola crediamo, un po’ di speranza.

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