ASSOCIAZIONE PER LA SCUOLA PUBBLICA DEL CANTONE E DEI COMUNI IN TICINO


Opinioni sull'iniziativa per la civica come materia separata (2017)


B. Storni 22-09-17
D. Bollini 21-09-17
S.E. Shaukat 12-09-17
A. Simoneschi 12-09-17
D. Pugno-Ghirlnda 11-09-17
R. Talarico 11-09-17
P. Martinelli 09-09-17
F. Tognina Moretti 07-09-17
F. Caccia 06-09-17
V. Pedroni 05-09-17
N. Pini 05-09-17
F. Merlini 05-09-17
F. Sonzogni 04-09-17
B. Blestra 30-08-17
P. Buletti 29-08-17
G. Barella 26-08-17
F. Zambelloni 27-06-17

 

CIVICA E CULTURA
Virginio Pedroni
laRegione, 5 settembre 2017

Sono contrario alla revisione di legge sull’insegnamento della civica con convinzione. Ho sempre considerato l’esercizio della cittadinanza fondamentale e nobile. Ritengo che la denigrazione di politica e politici, o anche solo il disinteresse per questa sfera della vita sociale, siano un serio problema, perché producono una politica peggiore, e che i giovani vadano preservati da questi atteggiamenti qualunquistici e resi consapevoli del valore della democrazia. Dunque, certo, la civica a scuola è necessaria: se ne fa già molta e bene, ma se ne può fare di più e meglio. Non, però, nel modo proposto dai fautori della revisione legislativa. Ecco le ragioni del mio dissenso.
Non separarla dalla storia
Il nuovo articolo di legge separa la civica dalla storia, cioè dalla cultura e dalla conoscenza. In qualità di insegnante di filosofia mi viene naturale rilevare come una questione assai affine a quella relativa al modo migliore di insegnare la civica sia addirittura fra le ragioni della nascita della filosofia. Mi riferisco alla domanda, rivolta spesso a Socrate dai suoi concittadini di Atene, se la virtù politica sia insegnabile e come lo si possa fare. Il tentativo di rispondere a tale difficilissimo quesito ha avviato una riflessione che rappresenta buona parte della prima stagione della filosofia. Non vi è stata una risposta univoca, ma una cosa sembrava chiara a tutti i grandi filosofi del tempo, a cominciare da Socrate: che virtù e conoscenza non potessero essere separate e che all’uomo e al cittadino occorresse una saggezza frutto di esercizio, studio, riflessione personale e dialogo razionale con gli altri.
Non si deve separare la civica dalla storia proprio perché farlo significherebbe indebolire, se non recidere, il suo legame con la più ampia formazione intellettuale e culturale di un giovane e ridurla a un sapere nozionistico, intellettualmente povero e poco coinvolgente; significherebbe, cioè, rendere difficile per gli allievi capire il senso delle nostre istituzioni politiche, che tanto devono alle vicende storiche e culturali che le hanno generate; vorrebbe dire chiedere loro di memorizzare senza comprendere; forse di credere senza pensare. Ad esempio, come spiegare la differenza fra Municipio e Consiglio comunale, fra Consiglio di Stato e Gran Consiglio, Consiglio federale e Assemblea federale, senza chiarire l’origine e il senso del principio della divisione dei poteri? Un principio nient’affatto ovvio, a sua volta incomprensibile senza parlare di liberalismo e diritti umani. Solo in questo modo delle mere espressioni verbali diventano concetti, valori e realtà in carne ed ossa. In caso contrario, tutto si riduce a filastrocche studiate a memoria.
Un nuovo voto
2) Creare una materia separata vuol anche dire aggiungere un nuovo voto sulla pagella degli studenti e soprattutto nuove prove di valutazione al loro già carico percorso scolastico. Valutare e selezionare è giusto, anche nel caso di storia e civica, benché vada fatto, soprattutto nella scuola dell’obbligo, con grande senso di responsabilità. Ma pensare che un contenuto dell’insegnamento acquisti dignità e incisività solo se ad esso è associato un voto separato e ben visibile significa riconoscere che in sé quella disciplina, priva dello spauracchio della nota, non può godere di alcun rispetto agli occhi degli allievi. Che questo avvenga per una materia come la civica, che ha a che fare non solo con conoscenze astratte, ma anche con valori e comportamenti, è molto negativo; il civismo non si può insegnare con la minaccia della bocciatura. Insomma, se separare la civica dalla storia ne mina il valore conoscitivo, enfatizzare il ruolo della nota ne sminuisce quello etico. Il risultato è una materia ad un tempo poco istruttiva e poco educativa.
Pedagogia o ideologia?
3) Poiché è evidente che una civica così concepita sarebbe assai meno efficace di quella oggi insegnata nel contesto della storia, siamo autorizzati a presumere che almeno alcuni sostenitori dell’iniziativa siano in realtà mossi da considerazioni ideologiche e non pedagogiche. I toni e gli argomenti con cui stanno conducendo la campagna confermano ampiamente questa ipotesi. Attraverso la revisione legislativa e con l’auspicato plebiscito a suo favore essi vogliono creare le condizioni per fare della civica un’occasione di indottrinamento, di esaltazione sciovinistica dei “nostri valori” opposti a quelli degli altri, della “nostra” democrazia, quella vera, contrapposta all’altrui, che invece sarebbe taroccata, e della democrazia diretta contro quella rappresentativa. Chiamano “civica” questa ideologia e denigrano quelli che pubblicamente respingono, anche per coerenza con la loro deontologia professionale, una tale concezione dell’insegnamento, a cominciare dai docenti di storia, accusati di appartenere a una casta privilegiata, pigra e poco patriottica. Come già ai tempi di Socrate, ci sono sempre quelli che pretendono di essere più democratici di tutti, più vicini al popolo di chiunque altro, e che, dicendo di farlo per difendere popolo e democrazia, amano distribuire cocktail a base di velenosa cicuta.

 

NO ALLA VALUTAZIONE IN CIVICA - COSA HANNO DA PERDERE GLI STUDENTI
Francesca Tognina Moretti
laRegione, 7 settembre 2017

Se la modifica di legge otterrà l’approvazione popolare, a partire dal settembre 2018 sarà attivato l’insegnamento della civica come materia separata nella scuola media, insegnamento affidato ai docenti di storia. La modifica di legge prevede il dovere di esprimere due valutazioni, una in storia, l’altra in civica. Con quali ricadute sul piano della valutazione? Già oggi il docente di storia insegna un’altra disciplina, perlopiù geografia o italiano. Egli si troverà ad esprimere lungo l’arco dell’anno, nei giudizi e nelle pagelle tre valutazioni sullo stesso studente, una in storia, l’altra in civica, la terza nell’altra materia che già insegna. Con quali ricadute sugli studenti? Essi saranno valutati in una materia in più. Tutto bene, se lo studente è brillante e riesce a conseguire buoni risultati. Nel caso in cui egli manifesti difficoltà sia in storia che in civica, il docente avrà il dovere di sancire le insufficienze non più in una sola materia, ma in due. Considerato che la mancata promozione si ha con tre valutazioni insufficienti, si comprende che tale modifica di legge graverà sugli studenti che incontrano qualche difficoltà negli studi alzando l’asticella per conseguire la promozione. La modifica di legge produce un effetto paradossale: pur diminuendo le ore di insegnamento della storia, il docente di storia e civica si troverà ad esercitare un potere maggiore rispetto ad oggi nell’ambito della valutazione degli studenti.
Vediamo ora quali altri effetti produce questa modifica di legge che crea uno squilibrio fra le materie a vantaggio della storia. Il docente di matematica, come quello di italiano, pur insegnando discipline che contemplano diversi aspetti (tra cui l’algebra e la geometria i primi, la grammatica e la letteratura i secondi) hanno diritto ad esprimere una sola valutazione nei giudizi e nelle pagelle. All’interno della scuola media la modifica di legge genera una sorta di gerarchia tra le materie che proietta al vertice la storia: il docente di storia e civica avrà facoltà di esercitare un potere maggiore rispetto a tutti gli altri docenti. Depositario del potere di condizionare in modo significativo il successo o l’insuccesso scolastico degli studenti, sarà temuto dai propri allievi più del docente di matematica.
Va da sé che vanno perdute in questo modo le condizioni per la realizzazione di un progetto di educazione alla cittadinanza. I genitori e chi opera nel mondo della scuola sanno bene quali sono le conseguenze della pressione delle valutazioni sui giovani: stati d’ansia, disagio scolastico, progressiva perdita di fiducia nelle proprie capacità, disaffezione nei confronti della scuola. Tutti sappiamo quanto sia delicato l’aspetto della valutazione, prima di tutto per lo studente, che la vive secondo una percezione diversa rispetto al docente che la impartisce. Sappiamo anche quanto esso sia un tema delicato nei rapporti tra scuola e famiglia.
C’è un’altra conseguenza da non sottovalutare: sull’attestato di licenza figurerà in bella vista la nota di civica che diverrà una sorta di patente di cittadinanza, passibile di condizionare il futuro di quegli studenti che sceglieranno la via dell’apprendistato: quale datore di lavoro offrirà un posto di apprendistato a uno studente non particolarmente brillante in civica?
Sono solo alcuni aspetti che rendono evidente come sarebbe stato opportuno coinvolgere le associazioni che rappresentano i docenti e i genitori, ciò che invece non è avvenuto.
Di fronte a ciò, bisogna salvaguardare la legge attuale che regola l’insegnamento della civica nelle scuole medie e medie superiori, nata in seguito all’iniziativa dei Giovani liberali: essa è ragionevole, equilibrata e sensata, attenta alle esigenze del mondo della scuola e delle famiglie, perché non dimentica la centralità dello studente nel processo educativo. Prevede l’insegnamento della civica, ma all’interno della storia o delle scienze umane, e senza una nota separata. Sostiene e promuove l’educazione alla cittadinanza come compito di tutta la scuola, un campo in cui sempre più la scuola ticinese nel suo insieme sta dando un contributo molto importante.
Ripartiamo da qui, nel dibattito pubblico, esprimendo un No chiaro e deciso alla modifica di legge nata dall’iniziativa Siccardi.

 

LA CIVICA IN PRATICA
Frnchino Sonzogni
laRegione, 4 settembre 2017

Da vent’anni mi occupo di educazione alla cittadinanza. Prima come insegnante, in seguito come responsabile di ‘La gioventù dibatte’, un progetto nazionale presente nelle scuole ticinesi, purtroppo solo marginalmente. Per anni ho spronato gli allievi a costituire organismi rappresentativi (comitati e assemblee), che permettessero di dar voce alle loro proposte, al fine di realmente coinvolgerli nella vita dell’istituto, sensibilizzarli ai temi politici e conoscere gli strumenti della democrazia. Da dieci anni mi impegno nella diffusione del dibattito come strumento pedagogico-didattico di educazione alla democrazia. A molti lettori potrà quindi sembrare sorprendente e illogico che il prossimo 24 settembre voterò contro l’ora di civica, scorporata dalla storia e con nota a sé stante. Sono contrario a questa proposta perché non è una soluzione al problema – reale e preoccupante – della scarsa preparazione dei giovani alla vita democratica. Non è certamente con un’ora quindicinale che si potranno svolgere le attività concrete esposte in precedenza, che diversi giornalisti e politici hanno definito più volte nei quotidiani “Civica in pratica” e “Scuola di democrazia”. Soprattutto non si potranno realizzare questi progetti confinandoli negli angusti spazi di una sola materia, chiedendo a un solo docente di farsi carico dell’importante compito di educare i giovani a diventare cittadini. Per questa essenziale finalità sono necessarie più ore e la collaborazione di tutti i docenti dell’istituto, con un costante lavoro interdisciplinare. È opportuno ricordare ai cittadini ticinesi che questa era la visione del Gran Consiglio ticinese quando nel 2001 decise di potenziare l’insegnamento della civica, convinto che non fosse compito di una specifica materia, bensì della scuola come tale. Visione modificata dal legislativo cantonale nella primavera di quest’anno, sulla spinta di un’iniziativa popolare lanciata nel 2013, che utilizza lo studio «Cittadini a scuola per esserlo nella società» (Supsi, febbraio 2012) per giustificare la necessità di introdurre una nuova materia con nota nelle scuole ticinesi. In realtà, Donati, Marcionetti e Origoni, autori della ricerca, nelle loro prospettive conclusive scartano questa proposta “difficilmente praticabile … per lo statuto epistemologico e una tradizione scolastica poco consolidata” e propongono “per dare maggiore slancio e incisività a questo ambito (…) il principio secondo cui tutti i docenti sono tenuti a fornire un contributo sul piano dell’educazione alla cittadinanza”.

Sì a maggiori conoscenze di civica, ma con l’insegnamento della storia
È innegabile che i giovani abbiano bisogno di maggiori conoscenze di civica. Lo conferma lo studio Supsi: “Abbiamo appurato come i risultati raggiunti (in termini di apprendimento degli allievi) non siano sempre soddisfacenti”. Ma queste conoscenze possono (devono!) essere apprese – come già previsto – all’interno delle ore di storia. Non è necessaria una nuova materia. Basta esigere da tutti i docenti di storia che l’istruzione civica sia veramente impartita a tutti gli allievi e che gli stessi la studino seriamente. A esperti di materia e direttori d’istituto il compito di verificare che questo avvenga realmente. Non si crea la nuova materia “geometria” se il programma di matematica non è rispettato. Inoltre anche l’assegnazione di una nota con sole 18 ore di lezione in un anno scolastico è ardua. È come chiedere a un docente di italiano (6 ore alla settimana) di attribuire la nota di fine anno dopo sole tre settimane di scuola. Assurdo! Pur ammettendone l’importanza, l’istruzione civica da sola non basta. Non si diventa cittadini superando dei test ma assumendo responsabilmente diritti e doveri che questo ruolo comporta. A cosa serve sapere, ad esempio, cos’è il potere esecutivo, un referendum, un’iniziativa popolare legislativa, se il giovane non si interessa della realtà nella quale è immerso, non legge un giornale, non approfondisce i temi politici, sociali, economici, etici, non sa argomentare le proprie opinioni, non sa confrontarsi con gli altri, ingiuria chi la pensa diversamente, non partecipa alla vita politica e non fornisce contributi alla comunità in cui vive? Il filosofo Ermanno Bencivenga ne ‘La scomparsa del pensiero’ afferma: «C’è una catastrofe che insidia la nostra epoca. È la rinuncia alla nostra risorsa più importante: la capacità di ragionare. (…) Oggi siamo assaliti da un eccesso di informazioni e il vero problema sembra quello di proteggersene, di non rimanere vittime di uno stato confusionale. Il ricorso al logos (ragione) sarebbe quanto mai necessario per distinguere le informazioni attendibili dalle bufale, le fonti degne di fiducia da quelle sospette». Tom Nichols, autore del saggio ‘La fine della competenza’, sostiene che «l’indisponibilità ad ascoltare le opinioni altrui ci rende meno capaci di pensare, di argomentare efficacemente (…). E questo è pericoloso, perché mina alla base il ruolo della conoscenza e della competenza in una società moderna, e in più erode la basilare capacità delle persone di convivere fra di loro in una democrazia». In queste citazioni sono delineati alcuni dei compiti fondamentali dell’educazione alla cittadinanza attiva: insegnare ai giovani a pensare, ragionare, argomentare, studiare e collegare le conoscenze, sviluppare lo spirito critico. Finalità centrali in progetti come ‘La gioventù dibatte’ che la scuola, come comunità educante, dovrebbe diffondere fra i giovani, coinvolgendoli attivamente in un percorso interdisciplinare di crescita e di formazione democratica. Soprattutto nelle scuole medie superiori e professionali dove – purtroppo – sono ancora poco presenti. Questi progetti – per loro natura trasversali – propongono l’analisi razionale e rigorosa di temi diversi e spaziano dalla storia alla geografia, dalle scienze all’etica, dal diritto all’economia, dalla sanità all’ecologia. Richiedono tempo e implicano collaborazione tra le discipline scolastiche. L’opposto di quanto chiede il testo in votazione, che va respinto, perché illude il cittadino ticinese che basti una pillola nozionistica quindicinale per formare un cittadino democratico, consapevole e attivo.

 

LA SCUOLA È TUTTA UN’EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA
Nicola Pini
laRegione, 5 settembre 2017

Diversi cittadini, nelle ultime settimane, mi hanno chiesto come mai avessi votato no all’introduzione dell’ora di educazione alla cittadinanza; un no che ribadirò anche al voto popolare del prossimo 24 settembre. Di certo non perché io non sia sensibile agli obiettivi della proposta, anzi, ma perché credo che gli strumenti per raggiungerli siano diversi. A fronte, ammettiamolo subito, di un reale problema di carenza civica – non solo per i giovani – che impone una riflessione da parte di scuola, politica e società tutta.
In primo luogo ho votato e voterò no perché lo scorporo porta con sé, purtroppo, un importante taglio delle ore di storia. Ed è una perdita, anche perché già oggi i docenti faticano a completare il programma stabilito. Ma il punto è un altro: la conoscenza della storia non è fine a se stessa, ma piutto- sto uno strumento per leggere il presente e costruire il futuro, anche civico. A ben guardare, al di là dei programmi specifici, studiare storia è di fatto studiare civica. È importante non solo per capire chi siamo e come funzioniamo – o per conoscere e interiorizzare diritti e doveri conquistati anche con il sangue – ma soprattutto per avere solidi punti di riferimento in un mondo sempre più globalizzato e liquido.
Secondariamente ho votato e voterò no perché reputo estremamente riduttivo limitare e inscatolare l’insegnamento della civica e della cittadinanza in sole due ore mensili di materia specifica. Il senso dello Stato e delle Istituzioni non si impara a memoria come le caselline, come – evidentemente – non lo si impara solo durante le ore di storia. Lo si impara studiando il testo argomentativo a italiano; approfondendo la geografia e a scienze quando si studia il comportamento delle api; o ancora leggendo Voltaire a francese e perfino a educazione fisica quando impariamo il rapporto tra noi e gli altri, ad esempio in un gioco di squadra. A ben guardare creare cittadini attivi e consapevoli è– e deve essere – l’obiettivo principe della scuola: si veda in questo senso l’articolo 2 della Legge della scuola, sulle finalità, un vero e proprio inno all’educazione alla cittadinanza. Istituire delle ore apposite rischia invece di deresponsabilizzare in questo senso altri insegnanti e altre materie. Se da un lato la politica cantonale invoca a gran voce il superamento dal dipartimentalismo della pubblica amministrazione, dall’altro per la scuola sembra negare l’importanza di un approccio trasversale e interdisciplinare. Fatto peraltro anche di progetti meritevoli, come quello della Gioventù dibatte, che permette a giovani allievi di sperimentare per davvero il confronto democratico, per giunta tirando a sorte le posizioni da argomentare, anche per spiegare che spesso le ragioni non stanno mai totalmente da una parte o dall’altra. Facciamo di più, ma facciamolo innovando, cercando nuove vie, coinvolgendo il territorio. Ecco perché, pur apprezzando il lungo e laborioso lavoro della Commissione scolastica teso alla ricerca di un compromesso tra Dipartimento e iniziativisti (anche se alla luce dei fatti sminuito dal mancato ritiro dell’iniziativa), ho votato e voterò no a quanto proposto. E forse, a ben vedere, non è così male che se ne parli, così possiamo dibattere su quale tipo di scuola vogliamo, anche perché la scuola di oggi è il Paese di domani, il suo prodotto interno lordo e il suo mercato del lavoro, ma anche i suoi valori, la sua tenuta e la sua coesione.

 

CITTADINANZA, SIAMO TRA I MIGLIORI, INIZIATIVA INUTILE!
Bruno Storni
laRegione, 22 settembre 2017

I fautori dell’iniziativa per l’insegnamento nozionistico della civica, a parte la caduta di stile con attacchi ai docenti che civilmente – dati e fatti alla mano – informano sulla reale situazione nella Scuola, fanno leva su una loro interpretazione dello Studio Supsi che evidenzierebbe gravi lacune nelle nozioni di civica dei nostri giovani e la non implementazione dell’insegnamento della civica.
Ebbene lo studio Supsi non arriva affatto a queste conclusioni: pur segnalando lacune in alcune nozioni “numeriche” di civica per un 20% di ragazzi poco interessati alla cosa pubblica, lo studio evidenzia come il 100% degli insegnanti di cultura generale, il 98% di storia e geografia, l’82% di italiano, filosofia, l’84% di economia e diritto e il 78% di insegnanti di altre materie hanno integrato elementi di civica nei loro corsi. Siamo stati tutti a scuola e sappiamo che per ogni materia c’è chi ha più o meno interesse e di conseguenza certe nozioni entrano da un orecchio e escono dall’altro, se non subito, al più tardi il giorno dopo l’esame.
A prescindere dalla controversa lettura dello Studio Supsi ci sono altri modi per valutare la qualità dell’insegnamento, per esempio quello personale, avendo tre figli che hanno frequentato le nostre scuole pubbliche, ho potuto farmi un’idea su pregi e difetti del nostro sistema scolastico che non mi sembra affatto abbia dimenticato la civica.
Ma oltre alle valutazioni soggettive ci sono anche dati concreti, come quelli sulla preparazione e riuscita dei nostri giovani all’università (tra le più alte in Svizzera), oppure i test Pisa che dimostrano come, sia nel confronto intercantonale che internazionale, la nostra Scuola se la cavi egregiamente, anche grazie alla vituperata “casta” di docenti che ci lavora.
Non so se in questi test figuri anche la civica, ma un altro indicatore potrebbe essere il grado dell’impegno civico (elezioni) riscontrabile nel nostro Cantone che dovrebbe essere comunque la diret- ta conseguenza della formazione alla cittadinanza della nostra Scuola.
Oltre al gran numero di liste e cittadini candidati che abbiamo nelle diverse elezioni, nel nostro Cantone la partecipazione al voto per elezioni è sovente il doppio per rapporto a molti cantoni d’oltralpe, dove capita che poco più di un elettore su tre vota per le elezioni del Consiglio di Stato o del Municipio. In Ticino siamo sopra il 60% con punte del 70% per le elezioni comunali. Anche il tasso di partecipazione alle ultime elezioni federali, un parametro altamente comparabile, ha visto il Ticino tra i primi con una partecipazione relativa del 12,8% superiore alla media svizzera. Uno scarto non da poco che dimostra come buona parte della nostra popolazione sia interessata e penso anche formata.
È vero che storicamente in Ticino la politica è più radicata (fin troppo) che in altri Cantoni, ma ritengo che l’elevato tasso di partecipazione sia un indicatore che dimostra che la Scuola Ticinese fa bene il suo lavoro, sicuramente meglio di molti altri Cantoni che si accontentano di partecipazioni del 35% senza gridare allo scandalo.
Credo che questi numeri sulla partecipazione alle elezioni in Ticino bastano e avanzano per rassicurare i promotori dell’iniziativa, tra i quali c’è chi della civica e degli strumenti di democrazia diretta come l’iniziativa ha un’interpretazione tutta personale tanto da promuovere iniziative cercando, tramite annunci sui giornali, raccoglitori di firme a pagamento (altroché non essere inondati di firme). La Scuola Ticinese fa bene il lavoro di educazione alla cittadinanza. Quanto sollevato dall’iniziativa è un non-problema perché in Ticino la civica e la formazione alla cittadinanza sono insegnate adeguatamente.

 

LA CIVICA È FIGLIA DELLA STORIA
Daniele Bollini
Corriere del Ticino, 21 settembre 2017

I più recenti sviluppi nella didattica asseriscono che l’allievo è maggiormente stimolato e motivato davanti a situazioni complesse, come lo sono quelle della vita reale, che non si prestano a facili soluzioni o a risposte univocamente giuste o sbagliate. Si tratta delle cosiddette situazioni problema che si propongono di essere volutamente provocatorie. Pensando all’attuale dibattito sull’insegnamento della civica in vista della votazione del 24 settembre, verrebbe da sottoporre agli allievi la seguente situazione problema: la Svizzera è una democrazia?
Ovviamente. Assolutamente. Ci potremmo dire di primo acchito e con fare offeso e risentito. In Svizzera coesistono forme di democrazia diretta e forme di democrazia rappresentativa, il tutto a vari livelli, da quello comunale e cantonale a quello federale e internazionale. Le varie costituzioni garantiscono diritti fondamentali e ampie libertà, compresa quella di scrivere e pubblicare questo testo. Va detto che tutto ciò è bene, che dobbiamo esserne fieri e che occorre apprezzare, e quindi conoscere, le varie battaglie culturali, politiche, giuridiche e anche armate, combattute per giungere a tale risultato. La civica è figlia della storia.
Ma la situazione è così idilliaca come potrebbe sembrare a prima vista? Gli storici americani David Armitage e Jo Guldi, nel loro Manifesto per la storia, hanno recentemente posto la crisi della democrazia tra le grandi emergenze planetarie, assieme ai cambiamenti climatici e al continuo aumento dei divari economici. Da qui la tesi secondo cui il dovere dell’educatore in ambito storico è quello di far comprendere alle giovani generazioni come si è arrivati, attraverso processi di lunga durata, a una tale situazione. Emilio Gentile, grande storico del fascismo, ha ultimamente pubblicato due interessanti saggi (Il capo e la folla – La genesi della democrazia recitativa e «In democrazia il popolo è sempre sovrano», falso) che evidenziano la problematicità dell’emergere di leader carismatici, populisti e mediatizzati per una società civile sana e armoniosa.
Ma torniamo alla Svizzera, certamente oasi privilegiata, ma non per questo al riparo da ogni pericolo. Che cosa deve insegnare sulla democrazia il docente di questo Paese ai suoi allievi delle scuole medie e medio superiori? Deve esaltare la democrazia svizzera come modello di perfezione oppure deve affrontare anche nodi problematici quali l’astensionismo, il populismo, il ruolo delle lobby, la concentrazione del potere mediatico in poche mani, il potere economico delle grandi aziende transnazionali, una legislazione sul finanziamento dei partiti tra le più opache in Europa, la competenza dei cittadini dinanzi a temi vieppiù complessi, l’esistenza di iniziative votate dal popolo ma rimaste lettera morta? Deve descrivere un’istituzione ideale oppure indicare anche che in Svizzera i politologi hanno dimostrato quanto sia ristretta la base sociale di coloro che contano veramente: all’incirca 1.200 decisori, negli anni Settanta, tra i quali forse 300 tra manager e politici di alto profilo che dispongono della rete e dell’influenza necessarie a promuovere i loro progetti. La citazione è tratta dal quinto e ultimo volume di «Histoire de la Suisse» (p. 78) di François Walter, uno dei maggiori storici svizzeri contemporanei. E ancora: qual è la miglior forma di democrazia? Quella ateniese che prevede l’estrazione a sorte di alcuni rappresentanti? Quella statunitense nella quale disporre di finanziamenti miliardari è ormai prerequisito per partecipare alla vita politica nazionale? O quella dei piccoli Consigli degli allievi istituiti nelle nostre scuole? Chi ha più ragione nelle campagne di voto? Chi dispone delle risorse finanziarie per tappezzare le città di manifesti o per costose inserzioni sulla stampa? O chi cerca a fatica di padroneggiare l’arte della persuasione e del dibattito esercitandosi nel testo argomentativo scritto e orale? La democrazia è dittatura della maggioranza come sosteneva Alexis de Tocqueville? O trattasi di oclocrazia, dominio delle folle volubili e ignoranti, come paventato da Polibio? Oppure ancora forma di raffinata sofocrazia collettiva come ci piace credere?
Il nuovo Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese fortunatamente prevede tra le competenze trasversali a cui ogni disciplina dovrebbe contribuire, lo sviluppo di un pensiero riflessivo e critico davanti alla complessità della modernità. Tale pensiero non consiste nel memorizzare brevi risposte che permettano di conseguire un buon voto. Consiste nel continuare a porsi domande, domande difficili, domande profonde, le cui risposte dovrebbero continuamente e socraticamente essere rimesse in discussione. La definizione di democrazia può essere dibattuta, riformulata in contesti diversi ed evolvere con il passare del tempo. Una cosa è tuttavia certa: bisogna prendersene cura, farne l’oggetto di un’educazione per eccellenza, mantenerla in salute, praticarla giorno per giorno e trasmetterla con convinzione alle giovani generazioni attraverso il potere inoppugnabile dell’esempio.
Un’ultima domanda: mezz’ora alla settimana di civica come materia a sé stante basterà? Ai cittadini il compito di decidere.

 

CON PIÙ VERIFICHE MIGLIORI CITTADINI?
Saffia Elisa Shaukat
Corriere del Ticino, 15 settembre 2017

Apparentemente questa iniziativa desidera «semplicemente» assicurarsi che la civica sia insegnata alla luce della difficoltà delle nostre democrazie a far partecipare la società civile alla gestione della cosa pubblica. Tuttavia, non basta verificare la conoscenza dei nostri illustri politici e delle istituzioni. Le nozioni si insegnano, si verificano, si dimenticano. Quindi la civica e le sue nozioni vanno ancorate a ben altro: alla cittadinanza per esempio, che è anche sentimento di appartenenza, piacere della partecipazione, impegno della responsabilità. E questo è più difficile da verificare nel senso classico del termine.
Come stiamo osservando in questi giorni, i docenti sono stati chiamati a mostrare al popolo le proprie verifiche per dimostrare di fare il proprio lavoro. Questa modifica di legge risolverebbe solo in apparenza le cose rendendo visibili verifiche, valutazioni, promozioni, bocciature, contenuti. Visibili appunto. Si tratta solo di chirurgia estetica, con effetti a lungo termine controproducenti.
Che la fiducia nella nostra professione non sia una caratteristica dei nostri tempi credo di essermene resa conto con amarezza in queste settimane, non mi riferisco dunque all’esperienza dei docenti. Ma quid delle ricerche dei pedagogisti? Frammentare le discipline e aumentare le verifiche non significa più apprendimento: è un’idea ottocentesca e ormai sorpassata. Al contrario giovano la ripetizione, il piacere (ebbene sì!) e l’applicazione dei contenuti in diversi contesti. Ecco che invece separando la disciplina, l’interdisciplinarità che cerchiamo di costruire andrebbe fortemente indebolita. Coloro che hanno elaborato il rapporto SUPSI, tanto discusso e sbandierato nelle sue più fantasiose interpretazioni, sottolineano l’importanza di un insegnamento trasversale. Ecco dunque come la politica si introduce con violenza nelle riforme in corso, senza veramente parlare di contenuti e modalità di insegnamento. La soluzione proposta è povera.
L’educazione civica e alla cittadinanza deve rimanere una responsabilità della scuola nel suo insieme. Così facendo invece si delega il compito a un docente solo e si deresponsabilizza il corpo insegnante: si corre il rischio di vedere ridotte le attività trasversali. Sarà una deriva automatica, un effetto collaterale difficile da evitare. D’altra parte, ricordo che si tratta di una responsabilità non solo della scuola ma della società intera. Tendiamo a dimenticarcene. E forse fa anche comodo dimenticarsene in quanto è ben più complesso comprendere veramente le giovani generazioni e capire come agire nel quotidiano e nei diversi contesti per aiutarli a crescere e ad essere attivi e responsabili. Da un lato scegliamo di erodere la storia – mentre conoscere la civica nel contesto della sua creazione e formazione, quindi nel suo contesto storico, necessiterebbe ancor più tempo – d’altra parte frammentiamo le discipline contrastando il principio dell’interdisciplinarità, aumentiamo la selezione con le verifiche sommative e deresponsabilizziamo la scuola delegando a un docente. È un intervento irrazionale e frammentato. Perché non partire da ciò che abbiamo nei nostri piani di studio, implementare e migliorare tale insegnamento? Certo lanciare una riforma di legge è molto più utile a livello politico, piuttosto che dedicarsi alla questione leggendo studi, lanciando sperimentazioni in merito, tenendo in conto dei risultati degli allievi stessi, i veri protagonisti, e non da ultimo il parere dei docenti per delle riforme.
In fondo, mi pare che questa disiciplina abbia senso solamente in un’ottica politica, e nel senso più retorico del termine purtroppo. Educazione civica e alla cittadinanza vuol dire, sì, conoscere le proprie istituzioni, ma significa innanzitutto appartenenza. Alla fine si partecipa attivamente solo a qualcosa a cui si desidera appartenere, a qualcosa dunque che si stima e si ama. Pensiamo semplicisticamente e paternalisticamente che i giovani non siano partecipi perché troppo ignoranti, li stiamo obbligando con una legge a sottoporsi all’ennesima certificazione per entrare e partecipare a giusto titolo nel mondo dei «grandi» e degli «svizzeri»

 

CIVICA: UN RITORNO AL PASSATO
Alessandro Simoneschi
Corriere del Ticino, 12 settembre 2017

Cosa ci aspettiamo quando pensiamo al futuro della nostra democrazia? Da padre di famiglia e cittadino spero che possa perpetuarsi e continuare a funzionare nella consapevolezza, come afferma il preambolo della nostra Costituzione, che «la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri». Ciò implica senso del dovere e responsabilità per noi tutti che camminiamo insieme per una parte della nostra vita. Spero quindi che il senso della comunità e della responsabilità prevalga rispetto all’egoismo e al manefreghismo, peraltro sempre esistiti. Come fare?
Sono convinto che la società di oggi deve trovare le modalità di oggi per educare alla cittadinanza. Spesso, invece, si guarda con rimpianto al passato, ricordano come era bello prima, come erano efficaci quelle soluzioni. La civica, come materia a sé stante, è una soluzione anacronistica, che poteva andare bene negli anni cinquanta quando c’era una certa rigidità sociale oramai soppiantata dalla società liquida, vieppiù individualista. I giovani di oggi devono poter considerare la partecipazione alla vita della comunità come una naturale continuazione della propria esistenza e della propria realizzazione come persone. Questo senso di appartenenza e di responsabile partecipazione alla comunità (non solo quella politica) non può certamente essere raggiunto con l’inevitabile nozionismo dell’ora di civica.
Ritengo inoltre illusorio accollare questo compito solo alla scuola, come se l’educazione alla cittadinanza democratica debba essere confinata nelle rigide mura dei palazzi scolastici. È un compito che investe l’intera società e di cui tutti noi siamo responsabili a cominciare dalle famiglie per continuare con la società civile e il variegato e ricco mondo delle associazioni, passando dalla politica e dalle imprese, a tutti i livelli, comunale, cantonale e federale.
Nel 2001 venne pubblicato un rapporto della Commissione federale per l’infanzia e la gioventù dal titolo «Essere responsabili – condividere le responsabilità» nel quale, oltre ai principi, venivano descritti 70 progetti provenienti da tutta la Svizzera e suddivisi in quattro ambiti: tempo libero, scuola, politica e azienda. Si tratta di progetti auto-finanziati e realizzati dalla società civile e da altri attori non di rado con il supporto dei comuni. Sono convinto che è così che si deve procedere, prendendo esempio da questi progetti nati dal basso come esempi concreti di partecipazione promossi dalla società civile e dai Comuni.
Qualcuno dirà: ma intanto accettiamo questo compromesso, è già qualcosa e poi vediamo. Non sono d’accordo. In primo luogo perché la civica – peraltro importante – è già insegnata nelle scuole ticinesi come lo dimostrano i programmi e le verifiche attualmente effettuati. Inoltre, sono dell’avviso che su un tema così importante non possiamo permetterci di prendere la direzione sbagliata utilizzando i metodi del passato. Certo, guardare al passato può essere confortante, ma anche illusorio se si pensa che una soluzione valida cinquant’anni fa possa ancora funzionare oggi, nell’era di internet e dei social network. Puntare tutto sul nozionismo della civica, oltre a non raggiungere lo scopo condiviso, porterà ad un rigetto da parte dei giovani che potranno pensare, forse a giusto titolo, che la questione della responsabile partecipazione alla vita della propria comunità si riassuma e termini con una nota sul libretto.
La questione deve essere affrontata in maniera diversa, con un programma pluriennale di educazione alla cittadinanza democratica che coinvolga le scuole, le associazioni, le aziende e le istituzioni come i Comuni.
Sono quindi convinto che se rivolgiamo lo sguardo al presente e al futuro, senza cedere alle facili ricette del passato, possiamo respingere senza remora la revisione della scuola.
Certo, di lavoro da fare c’è né ancora molto: allora rimbocchiamoci le maniche.

 

MA LA SCUOLA EDUCA GIÀ I CITTADINI
Rosario Talarico
Corriere del Ticino, 11 settembre 2017

Molte sarebbero le ragioni per votare no alla modifica di legge sull’insegnamento della civica. Mi limito tuttavia in questo breve spazio a un paio di considerazioni. L’iniziativa aveva preso le mosse dallo studio della SUPSI del 2012 che radiografava lo stato di salute dell’insegnamento della civica e dell’educazione alla cittadinanza nelle scuole ticinesi. I promotori lo impugnarono per dichiarare, come ripetono oggi sui loro manifesti, che nelle scuole la civica non è insegnata e che ciò avviene perché i docenti di storia non lo fanno (addirittura si rifiuterebbero di farlo). Ai «nostri ragazzi» verrebbe così negata la possibilità di conoscere e apprezzare le istituzioni svizzere, i diritti e i doveri; in altre parole, di diventare dei cittadini. Da qui la perentoria richiesta di creare la materia della civica con verifiche, voto in pagella e una dotazione di due ore mensili sottratte alla storia durante i quattro anni delle medie e sottratte alle materie umanistiche durante i quattro anni delle superiori.
In realtà, la ricerca su cui hanno fondato la loro campagna, non traccia per nulla un quadro così nero della situazione; tutt’altro. In un articolo di sintesi («Scuola Ticinese», 2012, n. 310) i tre ricercatori stilavano questo bilancio:
«Come dimostrano gli esiti di questa ricerca, la situazione attuale relativa all’insegnamento della civica e dell’educazione alla cittadinanza può essere definita globalmente buona per una parte consistente degli istituti scolastici, generalmente piuttosto attivi nell’organizzazione di attività dedicate a questi argomenti. Pure tra i docenti si riscontra un atteggiamento positivo: molti di essi cercano di integrare in modo mirato questi insegnamenti nella propria materia. Infine, anche per buona parte degli allievi ci sono, al di là delle conoscenze un po’ fragili e lacunose, degli esiti incoraggianti per quel che riguarda l’interesse dimostrato e l’atteggiamento positivo nei confronti della civica e dell’educazione alla cittadinanza».
Un giudizio positivo, che non esclude la presenza di problemi o difficoltà, ma che è ben lungi dalla descrizione catastrofica sdoganata dagli iniziativisti, i quali esigono interventi radicali e, temo, molto controproducenti. A pagina 70 della ricerca, gli autori suggerivano semplicemente di «valorizzare e dare continuità a quanto di buono viene già attuato nelle scuole a livello di educazione alla cittadinanza da parte di molti istituti e di tanti insegnanti, allo scopo di dare risalto e consolidare questo prezioso patrimonio». I ricercatori inoltre sconsigliavano l’ipotesi di «fare assurgere l’educazione alla cittadinanza a disciplina autonoma», perché «difficilmente praticabile, avendo questo ambito conoscitivo uno statuto epistemologico non del tutto definito e una tradizione scolastica poco consolidata» (p. 70).
Come mai allora i promotori dell’iniziativa, che hanno basato la loro azione proprio su questa ricerca, si sono tanto discostati dalle sue raccomandazioni conclusive, esigendo soluzioni che sono anche in controtendenza con quanto avviene nei Cantoni svizzeri? Oltre a essere onerosa per gli allievi, già carichi di verifiche scritte e orali, la civica che si profila all’orizzonte sarà nozionistica, slegata da ogni contesto storico e, per farle spazio, mortificherà in modo incisivo l’insegnamento della storia (anche quella svizzera) e delle materie umanistiche, per le quali si imporrà una drastica revisione di tutti i loro programmi. È allora necessario votare no.

 

LA CIVICA COME MATERIA NON È LA RISPOSTA GIUSTA
D. Pugno-Ghirlnda
Corriere del Ticino, 11 settembre 2017

Introdurre nella griglia oraria della Scuola media due ore al mese di civica, come materia a sé stante, con nota a parte. Due ore che verrebbero tolte alla storia, per non modificare la griglia oraria. Nella Scuola media superiore, invece, l’insegnamento della civica entrerebbe in modo frammentario a far parte delle scienze umane. L’efficacia dell’insegnamento sarebbe poi controllata dal Consaiglio di Stato ogni due anni, per un totale di quattro anni. Questa, ridotta all’osso, è la proposta di modifica dell’articolo 23 della Legge della scuola, in votazione il prossimo 24 settembre. È una modifica che gli insegnanti, gli esperti, le associazioni e tutti quelli che lavorano nel settore della formazione respingono perché produrrebbe più danni che vantaggi.
Di fronte a questa proposta, è legittimo chiedersi: è così che si formano i giovani al loro ruolo di futuri cittadini? Infilando, in un paio di ore al mese, una dietro l’altra – separate dal loro contesto storico – nozioni tecniche sull’organizzazione politica di Comuni, Cantone e Confederazione? La risposta è ovvia. No, per diventare cittadini partecipi e responsabili ci vuol altro. Tuttavia la domanda è necessaria e urgente, visto che presto andremo alle urne.
Il punto di partenza
Gli antefatti sono noti: un gruppo di cittadini, ritenendo non soddisfacente il livello di competenze raggiunto dagli allievi in materia di civica, nel 2013 ha lanciato l’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)». Iniziativa poi approdata sui banchi della Commissione scolastica e in seguito in Gran Consiglio, pronta per diventare legge. La formulazione del testo di legge fatta in Commissione scolastica (detta «testo conforme») è un compromesso tra le richieste degli iniziativisti e le leggi superiori, compromesso che ha raccolto il consenso del Gran Consiglio, anche se non proprio entusiastico, per la verità; infatti non sono mancati interventi critici, da parte di tutti i partiti politici. Ma poi il comitato promotore dell’iniziativa, evidentemente non soddisfatto né del testo conforme, né del consenso del Parlamento non ha ritirato l’iniziativa e quindi si va al voto. Personalmente, in quanto ex insegnante e ora deputata socialista in Gran Consiglio, sono contenta che si presenti l’opportunità di aprire un approfondito dibattito sulla questione dell’insegnamento della civica. Possiamo informare finalmente la popolazione sugli effetti della modifica di legge su cui si voterà il 24 settembre.
Valori e regole
Prima di entrare nel merito della proposta concreta, tengo a precisare che gli insegnanti considerano fondamentale l’apporto delle conoscenze di civica per la formazione del futuro cittadino, e non solo per le nozioni tecniche sull’organizzazione politica di Comuni, Cantone e Confederazione, ma anche perché è una materia che ha un impatto nella vita quotidiana di tutti. Alla civica sono connessi temi molto sentiti e coinvolgenti, come quelli relativi ai diritti. È così che i giovani capiscono valori e regole della società in cui vivono e che saranno presto chiamati a costruire. La civica fornisce in abbondanza spunti per fare delle belle lezioni, che catturano l’interesse degli allievi e gratificano l’insegnante. Vista la valenza di questo argomento, nessun operatore nel settore dell’educazione ha mai voluto relegare la civica in un cantuccio. Non lo vuole la popolazione, né lo vogliono gli insegnanti, accusati in modo gratuito e generalizzante di non insegnare la civica come si deve.
Non si fa nulla? Non è vero
Eppure, tutto questo travagliato iter è nato proprio dal presupposto che nelle nostre scuole questa materia sia insegnata poco e male. I fautori dell’iniziativa hanno estrapolato alcune informazioni da un rapporto SUPSI del 2012 sul potenziamento della civica. Questa è una forzatura bell’e buona, che risulta ancora più evidente se si leggono i piani di studio della scuola dell’obbligo ticinese, anche quelli meno recenti. In terza e quarta media si studiano le varie forme di governo, i sistemi politici, le specificità del sistema di governo svizzero. Da più di dieci anni, si organizzano delle uscite per far conoscere agli allievi le istituzioni democratiche (a Bellinzona e a Berna, a Ginevra e a Strasburgo), nell’ambito dell’educazione alla cittadinanza.
Non a caso, proprio dal rapporto della SUPSI consultato dai fautori dell’iniziativa, si ricavano parecchi dati confortanti sull’integrazione dell’insegnamento della civica nelle altre materie, in quanto conoscenza contestualizzata e saldamente ancorata alla realtà.
Il rapporto della SUPSI ha certamente evidenziato delle lacune nell’apprendimento di alcune nozioni puntuali volte a sapere, per esempio, quanti membri ha il Gran Consiglio o il nome di un ministro e così via. Nessuno sottovaluta l’importanza di tali conoscenze, ma il fatto che siano acquisite in modo frammentario non è sufficiente a definire scadente l’insegnamento della civica. Da questo punto di vista, la diffusione parziale di dati, messa in atto dal comitato d’iniziativa, non sembra affatto dettata dalla nobile intenzione di offrire ai giovani l’educazione che spetta loro, ma sembra rispondere a intenti propagandistici. Illazione? Non tanto.
E la partecipazione?
Perché gli autori della proposta non riflettono, piuttosto, sulla partecipazione reale alla vita politica dei giovani, una volta diventati maggiorenni, (per esempio sull’esercizio del diritto di voto)? Su questo si dovrebbero interrogare sul serio. La disaffezione verso i partiti, la scarsa militanza in ambito politico e la tendenza alla delega sono fatti reali e temo che, anche con elevate dosi di civica, una grossa fetta della popolazione adulta, formata nelle nostre scuole, si disinteresserà della politica.
E che dire di quel 20% di giovani totalmente disinteressato non solo a tutto quanto attiene alla Civica ma anche a tutte le altre materie in generale? Nel rapporto della SUPSI, di cui sintetizzo qui alcune riflessioni, si legge che un certo numero studenti e apprendisti vive estraniato dalla realtà sociale ed economica, in un mondo virtuale più adatto alle sue aspettative. Allora il problema importante non è più quello di sapere se alcune nozioni sono acquisite, ma di capire se i valori della nostra società, le regole, i principi che cerchiamo di insegnare faranno breccia un giorno nella loro mente e li aiuteranno ad essere, più tardi, cittadini a pieno titolo, distanti dall’illegalità e non marginalizzati.
Un no convinto
Le due ore di civica al mese, la nota assegnata, i controlli esterni proposti risolverebbero questa situazione? No, è l’ovvia risposta. La civica è garanzia di libertà e dignità solo se è fatta bene. Diciamo quindi un chiaro no alla proposta di modifica dell’articolo 23 della Legge della scuola e sosteniamo il lavoro di ricercatori, esperti disciplinari, direttori e docenti per approfondire e migliorare quanto già si fa.

 

LA CIVICA E IL DESIDERIO DI SAPERE
Pietro Martinelli
Corriere del Ticino, 9 settembre 2017

Nel primo libro delle Confessioni (1.14.23) scritte attorno al 400 dopo Cristo, il «dottore della Chiesa» Agostino (Sant’Agostino), dopo avere ammesso che da ragazzo detestava lo studio del greco e, di conseguenza, la lettura delle opere di Omero in greco, così concludeva il suo pensiero: «Credo proprio che i bambini greci provino gli stessi sentimenti per Virgilio, quando sono costretti a impararlo come lo ero io per Omero. Chiaramente era la difficoltà d’imparare a fondo la lingua di un altro paese a cospargere di fiele tutte le delizie greche di quei racconti fantastici. Lingua greca di cui non conoscevo neanche una parola e, per farmela imparare mi agitavano lo spettro di terribili minacce e punizioni. Per dire la verità, quando ero piccolo, non conoscevo una parola neanche di latino e, tuttavia, applicandomi, l’ho imparato senza paura né castighi; perfino tra le braccia carezzevoli delle nutrici, oppure quando giocavo e mi divertivo in allegria. Questo fa ben capire come sia ben più efficace, per imparare, il desiderio di sapere che nasce dalla libertà che non la necessità di sapere che nasce dalla paura». Il desiderio di sapere, il piacere di imparare sono fondamentali per suscitare interesse, partecipazione, conoscenza.
Credo che la nostra scuola debba pur insegnare a scrivere, leggere e far di conto e, più avanti, debba confermare con esami e note determinate competenze professionali (anche se vi sono insigni professionisti, letterati e artisti che non hanno mai ottenuto un diploma), ma deve anche, direi soprattutto, fare nascere nei giovani «il desiderio di sapere che nasce dalla libertà». Deve saper suscitare quelle emozioni che sviluppano la curiosità, il piacere della conoscenza e la voglia di approfondire la conoscenza con il confronto. Questo in particolare per quel che riguarda le materie umanistiche, come la letteratura, la storia, la nascita e lo sviluppo dei diritti e dei doveri (diritti e doveri espressamente citati nel titolo dell’iniziativa generica di Siccardi) e dove i diritti e i doveri di oggi sono il risultato delle ribellioni e delle rivoluzioni di ieri. Su temi così vivi e appassionanti un insegnamento nozionistico di due ore al mese accompagnato dalla nota (la minaccia di una punizione) non può che generare, a mio parere a giusta ragione, noia e ripulsa. Ma per appassionare i giovani alla storia e allo studio delle nostre istituzioni, condizione necessaria è innanzitutto quella di rispettarle, evitando, ad esempio, di definire genericamente la politica una cosa sporca, i politici dei corrotti e di chiamare «governicchio» il nostro Consiglio di Stato o «parlamenticchio» il nostro Gran Consiglio o ancora «bambela» i nostri governanti. E di chiamare «casta» chi svolge il delicato compito di coniugare democrazia diretta e democrazia rappresentativa traducendo in leggi coerenti la volontà popolare. Perché mai un mondo circondato dal sospetto, dal dileggio e, persino, dal disprezzo dovrebbe interessare i giovani?
C’è molto da fare in questo senso e la proposta di modifica della legge della scuola formulata dal Gran Consiglio a me sembra vada nella direzione sbagliata e sia soprattutto un esercizio alibi. Per questo il 24 settembre voterò un no convinto.

 

LA CIVICA NELLA SCUOLA? CERTO, MA CON LA STORIA
Fulvio Caccia
Corriere del Ticino, 6 settembre 2017

La cultura politica forgiata nello sforzo di preparazione e poi di sviluppo dello Stato federale la considero il patrimonio più importante e indispensabile per il futuro del nostro Paese e della sua democrazia. È frutto di un lungo travaglio e merito di grandi uomini politici che hanno saputo superare difficili situazioni come la guerra del Sonderbund, cercando e trovando delicati equilibri a tutela di minoranze all’interno della struttura dello Stato federale, a cominciare dalla sua Costituzione. Significativa è la struttura del Consiglio degli Stati con l’artificio dei Semi-Cantoni. La struttura federale ha sì garantito direttamente il rispetto delle particolarità cantonali, ma un sostegno alle esigenze delle minoranze italofona e romancia, alle loro lingue e alle loro culture, ha richiesto tempi lunghissimi. Ma anche certi diritti fondamentali sono stati difficili da raggiungere: penso ai diritti civili dei cittadini di religione ebraica riconosciuti soltanto nel 1865 o al diritto di voto alle donne, riconosciuto nel 1971.
Al di là dei diritti tutelati dalla Costituzione federale la pratica politica è stata contrassegnata da un costante e difficile sforzo di curare gli equilibri a livello politico e fra le regioni linguistiche. Si ricordi che il primo esponente del partito rappresentativo dei cattolici svizzeri J. Zemp è entrato in Consiglio federale soltanto nel 1891; il primo UDC R. Minger nel 1929; il primo socialista M. Weber nel 1951 (per soli due anni!). Soltanto nel 1959 si è arrivati alla ripartizione detta «formula magica» del 2-2-2-1.
La prima donna, Elisabeth Kopp, è arrivata in Consiglio federale nel 1984. La presenza di consiglieri federali «latini» ha faticato a raggiungere il livello di tre su sette (e il presidente dell’UDC svizzera si rammarica che il PLR non presenti nessun candidato della Svizzera tedesca!).
Una preoccupazione costante di questa cultura politica ha prodotto lo sforzo di evitare che questioni di grande importanza per il Paese si risolvessero con maggioranze risicate, che arrischiavano di dividere il Paese lungo le frontiere linguistiche o religiose.
Che fine ha fatto o sta facendo questa cultura politica, che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni educazione civica? Mi sembra che stiamo scendendo su una china pericolosa. L’uso smoderato di iniziative popolari vi contribuisce di certo. La nuova cultura del dibattito-spettacolo pure. Il malvezzo di usare l’attacco personale all’interlocutore invece di contrapporre argomenti sta diventando la regola, anche nel dibattito attuale sulla civica, dando una pessima lezione di civica ai cittadini, giovani o meno giovani.
L’educazione alla cittadinanza può e deve essere ulteriormente migliorata. Nella scuola deve fondarsi principalmente sulla storia, ma anche godere dell’apporto di altre materie (io lo facevo insegnando fisica, la cui storia ben si presta). Nella società molto può fare l’associazionismo e pure una stampa di qualità, che sa distinguere fatti, opinioni e menzogne. Ridurre la civica a una materia a sé stante è soluzione inopportuna ed inefficace.

 

LA CIVICA NELLE SCUOLE UN DONO AVVELENATO
Fabio Merlini
Corriere del Ticino, 5 settembre 2017

Dunque, il cittadino sarà presto chiamato a esprimersi sull’idea che l’educazione alla cittadinanza democratica costituisce un insieme di conoscenze autonome tale da potersi, e anzi doversi, istituzionalizzare nei termini di un corpo disciplinare a se stante. E quindi essere trasmessa quale materia scolastica, accanto a altre materie (scuola media), oppure (post-obbligatorio) attraverso la somministrazione di moduli da certificare con nota all’interno dell’organizzazione delle materie d’insegnamento esistenti. Questa idea a me sembra al contempo anacronistica e perfettamente coerente con i tempi, a dire il vero non entusiasmanti, nei quali spendiamo oggi le nostre esistenze. È anacronistica perché sembra ferma alle discussioni ottocentesche sull’organizzazione della conoscenza in compartimenti definiti e autonomi se non per qualche prestito metodologico. Una politica del sapere che aveva certo senso allora. Quando il problema era quello di emancipare la conoscenza dai condizionamenti libreschi della tradizione e dalle incrostazioni metafisiche, per poterle assicurare linguaggi coerenti in piena autonomia, teorie fondate, riferimenti puntuali e riproducibili alla realtà, tanto più precisi quanto più capaci di circoscriverla. Tutto questo ha permesso, intendiamoci bene, lo straordinario sviluppo delle conoscenze che ha caratterizzato l’universo tecnico-scientifico di cui oggi beneficiamo. Ne conosciamo però anche i limiti. Ed è per questo che da decenni la ricerca più avanzata si interroga non senza difficoltà, ma con tenacia, sui possibili transiti tra disciplina e disciplina, per poter riconsegnare lo sguardo alla complessità stratificata del reale. «Interdisciplinarità» è la nozione che si è fatta carico di questa preoccupazione. Sul fronte scolastico, tutto ciò è stato tradotto nell’auspicio di una maggiore interazione tra le discipline, secondo quella idea di progetto che consente di far convergere i diversi saperi su un obiettivo di conoscenza integrativa. È la logica del senso e dell’unità, contro la logica della dispersione e della frammentazione. Per questo, dico che scorporare l’educazione alla cittadinanza dall’insegnamento della storia significa fare un passo indietro. Non voglio neppure accennare a come oggi gli insegnanti siano sottoposti a una micidiale pressione in vista della realizzazione dei loro programmi d’insegnamento. Osservo solo questo, l’ansia che ne consegue è sovente tenuta a bada moltiplicando esami e verifiche. E questo è il modo migliore per uccidere l’interesse verso una disciplina. Sappiamo quale meccanismo perverso generi: finalizzare lo studio alla resa immediata, per poi dimenticare tutto. Una detestabile declinazione del principio di prestazione. Come ho anticipato, la modifica di legge della scuola su cui siamo chiamati a esprimerci è però, paradossalmente, anche un frutto avvelenato della povertà dei nostri tempi. Anacronistica, ma anche in linea con una delle più deleterie tendenze odierne: la baldanzosa smemoratezza con cui guardiamo al presente. In questo caso non è irrilevante che a farne le spese sia l’insegnamento della storia. Noi siamo così supponenti da credere che in fondo la storia non abbia più nulla da dirci, che il presente, già di per sé, sia in grado di offrire tutte le risorse per venire a capo delle sfide cui siamo confrontati. Viviamo talmente appiattiti sulle urgenze del presente da non porci nemmeno più la domanda sul loro senso e sul loro perché. Siamo esseri immediati e senza prospettiva. Perché abbiamo smarrito la memoria dei processi che ci hanno condotti dove siamo. In questo quadro, non è sorprendente la proposta di sganciare la civica dalla storia. È una conferma di questa logica perversa. Preferiamo le nozioni alla messa in prospettiva, perché viviamo nell’assolutizzazione di ciò che si dà. Sapere cose non è dare un perché alle cose. Conoscere il funzionamento delle nostre istituzioni, senza capirne le ragioni, il loro «da dove», i motivi della loro affermazione, i poteri che le legittimano, è il modo migliore per accettare tutto quanto passa il convento. Ma questa non è l’educazione, è la diseducazione alla cittadinanza, nulla a che vedere con la cura della democrazia. Sono le ragioni per cui voterò no il 24 settembre.

 

CIVICA: UNA MODIFICA INUTILE E PERICOLOSA
Giovanni Barella
laRegione, 26 agosto 2017

Civico è tutto ciò che concerne il cittadino giacché membro di uno Stato, con valore prevalentemente etico.
Ne consegue che l’educazione civica da una parte è lo studio e la conoscenza delle forme di governo di una cittadinanza, la gestione e il modo di operare dello Stato, con particolare attenzione alla ricerca del bene o del male per la popolazione, di ciò che è giusto fare o non fare, ma d’altra parte è anche l’assunzione di un modo di comportamento secondo quello che ciascuno ritiene sia la cosa più giusta. Bello convivere in armonia, nevvero? Le prime teorie sulla necessità di uniformare il comportamento dei cittadini risalgono a Platone e a Confucio, i quali, rispettivamente in Occidente e in Oriente, hanno contribuito a elaborare i concetti di diritto e di giustizia. Orbene, è risaputo che per tali concetti vi è una moltitudine di applicazioni pratiche: ogni nazione ha le proprie, spesso con rapidi sviluppi più o meno evolutivi.
Nelle nostre scuole si rendono attenti e partecipi gli allievi sulla civica soprattutto mentre si tratta la storia: è naturale che sia così, poiché la prima è la conseguenza della seconda. Per fare un facile esempio: prima della Rivoluzione francese l’essere civico era sicuramente diverso da quello dopo.
Da noi, dal terzo anno di scolarità elementare, si parla di civica con riferimento al funzionamento organizzativo del «proprio» Comune e non mancano di certo testi in aiuto dei maestri (un esempio su tutti: «Voglio fare il cittadino» di Eros Ratti). Naturalmente la conoscenza si amplia viepiù negli ordini scolastici seguenti: cosa significa essere cittadino ticinese o svizzero o europeo oppure del mondo. La civica, oltre che parlando di storia, può essere tranquillamente approfondita con tutte le altre materie d’apprendimento, siano esse umanistiche o scientifiche: non mancano certamente, agli insegnanti, le occasioni per trattare l’educazione alla cittadinanza.
Ma allora perché rendere fine a se stessa la civica, scorporandola dalla storia?
I sostenitori di questa iniziativa sostengono un calo d’interesse per l’impegno civico, che è essenziale per la democrazia, perché solo partecipando alla vita politica e sociale è possibile dar voce alle proprie esigenze e interagire nelle decisioni politiche, magari traendo sensazioni di felicità nel veder soddisfatti i concittadini. Ma quale democrazia se, in pratica, il più debole nulla può contro chi detiene un potere economico e/o politico, cioè il più forte? La proposta di scorporamento, a mio parere fatta da persone in malafede, ha più le fattezze di un tentativo d’indottrinamento finalizzato alla strumentalizzazione della popolazione. Un po’ come avviene per le religioni
monoteiste non secolarizzate (e ce n’è una che ci dà grattacapi). Al giorno d’oggi l’essere umano può acquisire un senso civico solo tramite un apprendimento a 360 gradi, avendo anche la concreta possibilità e opportunità di assimilare conoscenza ed esperienza con il mondo reale. Ecco perché voterò no il prossimo 24 settembre.

 

INSEGNARE LA CIVICA O EDUCARE I CITTADINI?
Bruno Balestra
Corriere del Ticino, 30 agosto 2017

Anni di professione al confine fra il rigore delle regole e la fragilità umana hanno sgretolato facili certezze teoriche costringendomi a nuovi interrogativi su come impariamo a fare scelte di convivenza responsabili. Secoli di ricerca specialistica hanno arricchito e sempre più frammentato il sapere. Oggi la nuova frontiera è l’abilità di risposte in grado di cogliere il senso comune delle innumerevoli informazioni che abbiamo messo in rete.
Superato il dogmatismo religioso, il pensiero scientifico ha sconvolto la fisica, coinvolto il soggetto e relativizzato la divisione fra oggettività razionale e visione umanistica. Abbiamo visto liquefarsi gli assolutismi, le ideologie, il determinismo, cambiare i confini politici ed economici ma ancora sobbollono vecchi schemi di pensiero.
Il bisogno di certezze preferisce scelte passate, elegge miti e riti che costruiscono le nostre identità, ma inibiscono la comprensione dell’ineluttabilità del mutamento. Siamo figli di relazioni di idee ed esperienze che si fecondano per sopravvivere in un mondo che cambiamo e ci cambia. Gli studi su psiche e cervello aiutano a riconoscere la forza inconscia di abitudini ed emozioni che condizionano e quell’intuizione creativa che ispira arte e unisce i pensieri. Ricordiamo emozioni non nozioni, impariamo a evitare situazioni che ricordiamo negative, preferiamo quelle che associamo al piacere, ma facciamo fatica a distinguere i fatti dalle percezioni e dai ricordi. Per scegliere occorre riconoscere abitudini e paure che inducono risposte automatiche, pregiudicano la libertà e riducono le opzioni. Da alcuni anni con esperti di discipline diverse, genitori e docenti ci scambiamo informazioni ed esperienze per mettere a fuoco, da prospettive e competenze differenti, l’educazione alla cittadinanza e alla democrazia che ci appassiona e condividiamo con i ragazzi. Un percorso di formazione reciproca che, per esser esempio educativo per i giovani, richiede il coraggio di superare pregiudizi individuali per «condurci fuori» dai confini delle singole materie specialistiche. È una ricerca comune per intuire nell’intreccio di informazioni almeno quei punti nodali che possono aiutarci a scelte oltre la paura dell’ignoranza. Di fronte alla complessità delle scelte, è facile lasciarsi sedurre da emozioni cattive consigliere, dalla pigrizia che preferisce inchinarsi all’autorità dell’opinione altrui oppure astenersi. La democrazia è un’altra cosa: è dare significato a parole come libertà, eguaglianza, fratellanza e dignità. Un impegno che, quando anche l’espressione della minoranza è considerata, dà piacere e induce a partecipare senza dividere diritto e dovere. Un impegno che si impara con l’esperienza scolastica quando l’educazione offre all’alunno punti di vista ampliati per costruire e esprimere la propria opinione. Studiare le regole del calcio è poco utile se manca la motivazione a giocare, la tavola periodica degli elementi è noiosa se non esploriamo i principi di chimica e fisica che organizza. Al contrario, scoprire nel pensiero sacro dei Veda l’origine del mistero dello zero e dei numeri irrazionali, può incuriosire i meno portati all’algido pensiero matematico. Riflettere sull’algebra come simboli logici «per riunire parti separate» (dall’arabo al gabr) o osservare come la natura rifletta la successione di Fibonacci o i frattali di Mandelbrot, amplifica la capacità di cogliere prospettive di pensieri diversi. Sono metodi, per parafrasare i preamboli delle Costituzioni cantonale e federale, che fanno uso della conoscenza umana in modo rispettoso dell’uomo e dell’universo e di apertura al mondo. Metodi che credo più efficaci della minaccia di un voto per appassionare alla ricerca di denominatori comuni del convivere nei principi fondamentali di giustizia. Quelli della Dichiarazione universale e della CEDU, che travalicano i confini per unire cittadini di tutti i Paesi. Non a caso la sistematica legislativa li antepone agli aspetti organizzativi che ci differenziano. Organigrammi diversi per ogni Stato, certamente importanti per stabilire la gerarchia interna delle competenze, meno utili se poi non si sanno trovare denominatori di giustizia comuni.
L’esperienza condivisa in questi anni per «sincronizzare» le diverse materie e favorire una visione transdisciplinare che migliori l’educazione «all’arte del possibile» di fronte a scelte complesse, mi rende difficile capire la scelta opposta. Una logica che divide? Un’idea senza storia? Cos’è la civica materia a sé stante? Un poco stimolante organigramma da memorizzare per timore del voto? Cosa si insegnerà in quel cospicuo monte ore sottratto alla riflessione su errori e conquiste del passato?

 

NON SUONO NELLA CIVICA
Paolo Buletti
Corriere del Ticino, 29 agosto 2017

Mi piace ascoltare la Civica filarmonica ma qui la musica è diversa, anche un po’ sghimbescia, non priva di stonature. Per questo mi permetto un controcanto con l’intento di contribuire alla riflessione sui temi posti dall’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)» in votazione il prossimo 24 settembre.
Invasioni di campo?
È giusto che tramite iniziative popolari e discussioni parlamentari si possa decidere cosa insegnare a scuola, entrando in modo dettagliato nei contenuti dei programmi e nelle modalità di insegnamento?
La discussione e la decisione di introdurre l’obbligo dell’insegnamento dell’inno patrio a scuola avevano già posto questo interrogativo. L’inno patrio obbligatorio ha aperto spazi per iniziative personali, di forze politiche e di comitati di cittadini che si sono sentiti autorizzati a dettare alla scuola le loro priorità (potremmo fantasticare a lungo sulle proposte derivanti da questo metodo di lavoro, passeggiata obbligatoria al praticello del Grütli, introduzione della lotta svizzera o del tiro al piccolo calibro nei programmi di ginnastica, corsi di dialetto, corsi di cucina con le ricette nazionali ? E via fantasticando). Qualcuno qui dirà che si tratta di diritti democratici sacrosanti: personalmente penso che occorra coltivare maggior rispetto e fiducia nei confronti di chi opera quotidianamente nella scuola come in qualsiasi altro campo professionale senza sentire il bisogno fare polemica politica sull’uno e sull’altro aspetto del curricolo di studi. La concertazione a livello democratico si costruisce meglio a contatto diretto, nel patto educativo tra genitori e docenti, cioè tra adulti parimenti responsabili di contribuire alla crescita e alla consapevolezza dei ragazzi. A queste latitudini è nutriente la critica, la riflessione comune, il confronto tra aspettative diverse. Occorre però percepire l’esistenza di una soglia: per entrare nella scuola bisogna aprire la porta, oltrepassare la soglia e rendersi conto che si passa dal fuori al dentro. Se questo avviene, gli scambi di pareri diventano delicati e rispettosi delle diverse conoscenze che ognuno porta con sé e dei ruoli diversi che ognuno ha nella costruzione del sapere. Altrimenti si rischia l’entrata a piedi pari, la propaganda politica, lo sventolio della bandiera, il proclama.
Educazione alla cittadinanza
La cittadinanza per conto mio si accompagna alla capacità di leggere quello che ci sta attorno, di trovare parole sempre più precise per cercare di descrivere il mondo. Cittadinanza corrisponde al diritto per ognuno di raccontare la propria storia, alla possibilità di prendere la parola, al rispetto, all’ascolto reciproco, alla prevalenza del capire sul giudicare. L’educazione alla cittadinanza si fa tutti i giorni imparando a stare in gruppo e a crescere nella consapevolezza delle proprie unicità e dell’importanza di far interagire le differenze in modo che il gruppo si nutra delle storie di ognuno. Una comunità dove ci sia posto per le storie al plurale è predisposta al riconoscimento della cittadinanza per ogni essere umano che si trovi ad abitare per motivi diversi la medesima classe, lo stesso luogo. L’educazione alla cittadinanza non è una materia che si impara un’ora alla settimana ma una pratica quotidiana, un modo di essere responsabili di fronte alle proprie scelte e accoglienti nei confronti di tutti i componenti del gruppo. Si diventa cittadini imparando a stare in pace considerando la dignità di ognuno come elemento prezioso del vivere comune senza sfuggire al conflitto che, in quest’atmosfera, diventa occasione di confronto e momento di crescita. Mi sembra perciò importante non equivocare sulle parole. Civica ed educazione alla cittadinanza sono cose diverse e non vanno confuse tra loro. Non intendo certo banalizzare l’importanza della conoscenza dei diritti e dei doveri del cittadino ma qui si pone un altro problema di ordine metodologico.
L’importanza dei collegamenti
La conoscenza si costruisce in un continuo confronto, cercando il più possibile legami, differenze, variazioni, sfumature. Per conoscere devo poter collegare le cose tra loro, immergermi nel contesto e percepire le possibili variazioni che danno all’oggetto di conoscenza coloriture diverse. Imparo quando scendo in campo e porto allo scoperto le mie ipotesi non con il pretesto che siano le uniche plausibili ma disposto a rimetterle in discussione costringendomi a precisare il mio pensiero, a formulare domande, a prendere in considerazione la possibilità di vedere il problema da angolature diverse. Nel caso della civica si impone la stessa necessità: quella di mettere a confronto le idee e di immergersi in un contesto che favorisca il dibattito prendendo a prestito tutti gli argomenti che possono venir suggeriti dalle diverse discipline. Si tratta quindi di lavorare per temi e non di segmentare il sapere, spezzettarlo fino a vuotarlo di significato, ridurlo a una semplice acquisizione mnemonica di nozioni sterili. La civica è uno di quegli argomenti che reclama a gran voce connessioni e divergenze e va quindi considerato un argomento trasversale che si distribuisce addirittura sulla vita quotidiana del gruppo classe, una delle prime forme di apprendimento dello stare in società. Fare della civica una materia a parte mi sembra perlomeno paradossale, una contraddizione che insinua la domanda: ma veramente gli iniziativisti vogliono favorire nei ragazzi la consapevolezza del proprio diritto alla cittadinanza e delle responsabilità che ne conseguono?
Parole
Mi piacciono queste parole: cittadinanza, storie (al plurale), soglia, responsabilità, consapevolezza, voci, patto educativo, collegare, capire, rispetto, gruppo. Potrebbero essere la trama di una storia. Invitano alla tessitura, richiamano l’arazzo, osano la complessità. Per questo preferisco percorrere un cammino che apre alle scoperte, alle ipotesi e rinunciare all’illusione della semplificazione, della nozione misurabile, del test con le cinquanta domande di civica che hanno la presunzione di designare il cittadino tipo.

 

LA CIVICA: EDUCAZIONE E ISTRUZIONE
Franco Zambelloni
Corriere dl Ticino, 27 giugno 2017

Da tempo seguo nei media la disputa sull’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole ticinesi; e ne ricavo sempre nuovi dubbi e perplessità.
Premetto: sono convinto che l’educazione civica debba far parte del programma e dell’azione educativa della scuola. Mi pare però opportuno chiarire che, a mio avviso, l’educazione civica e l’istruzione civica, benché complementari, non sono la stessa cosa.
In quanto educazione, quella civica non può essere definita in un programma e non costituisce materia di studio: come la morale, la cortesia, la correttezza del comportamento, anche la civica la si impara fin da piccoli, grazie all’azione educativa della famiglia, della scuola e di tutta la comunità. Educazione civica è l’assunzione di forme di rispetto verso le persone e le proprietà comuni: non si imbrattano gli edifici pubblici, non si lordano le strade con bottigliette e mozziconi, non si fanno vandalismi, non si assordano i passanti con musica a tutto volume… Ecco perché non si tratta di un programma di studio: è un apprendimento progressivo, che via via rende consapevoli di appartenere a una comunità alla quale si deve rispetto. E dunque, quando a scuola si insegna (così voglio sperare) che non si insulta un compagno, non lo si spintona, non si deturpano i banchi, i muri e le vetrate, questa è educazione civica.
Ma la disputa – mi pare di aver capito – verte soprattutto sull’istruzione civica, ossia sulla conoscenza delle istituzioni che strutturano la vita politica dei cittadini. E qui le mie perplessità si fanno maggiori: infatti i programmi attuali già da decenni prevedono che questo insegnamento venga impartito nell’ambito del programma di storia. Perché, dunque, se ne vuol fare una materia a sé con una specifica valutazione scolastica? Perché – si risponde – gli allievi la civica non la sanno! Ma allora il problema sta qui: perché non la sanno? Forse perché non viene loro insegnata? Ma in tal caso la colpa non è solo dei docenti, ma degli esperti e delle direzioni che hanno il compito specifico di vigilare sull’insegnamento. Dunque, basterebbe richiamare ciascuno al suo dovere per risolvere il problema.
Ma forse il problema non sta neppure qui. La civica probabilmente viene insegnata – solo che non viene imparata! Già, perché, per imparare, occorre anche studiare: può sembrare assurdo in questi tempi in cui si esaltano le competenze e si disprezzano le nozioni, eppure, abbandonando la retorica di quella pedagogia iper-innovativa che oggi impone il suo dogmatismo, resta pur sempre vero che se un giovane non sa cosa sia un parlamento e come venga costituito, né cosa siano un governo, un referendum o un’iniziativa, difficilmente potrà esercitare consapevolmente i suoi diritti-doveri di cittadino. Concordo: le nozioni da sole non bastano a formare il cittadino; ma visto che ne avrà poi bisogno, cominciamo a dargliele – e a fargliele studiare – così come gli si impongono le regole grammaticali del tedesco o le formule geometriche.
La soluzione, se questo è il problema, sarebbe allora semplice: torniamo a pretendere che lo studente comprenda, studi e ricordi; e reintroduciamo una selezione per chi non ha voglia di studiare. Ma no! Per rimediare, si vuole invece che la civica diventi una materia a sé, con tanto di nota. Ma cosa cambierebbe, se la nota (almeno nella scuola dell’obbligo) non è mai un’insufficienza, salvo che per la matematica e il tedesco?
Ma anche la soluzione della materia a sé è rimaneggiata dai politici, che per barcamenarsi tra gli imperativi della nuova pedagogia e le rivendicazioni civili inventano un compromesso che rischia di creare ulteriore confusione senza affatto portare a una soluzione: della civica si fa una materia a sé stante, assegnandole ore tolte alla storia durante la scuola media, e poi, nelle medie superiori, diluendola a spizzichi tra docenti di materie diverse. Una soluzione che incontra il dissenso degli insegnanti di storia. Il che genera una domanda legittima: perché non dare retta a chi il mestiere lo conosce?
Tante domande alle quali non trovo risposta, e che sfociano, senza speranza, in un’ultima domanda: perché non tornare al semplice buon senso?