Fabio Camponovo, 9 maggio 2006
C’è una cosa triste, e fondamentalmente preoccupante, nel dibattito che si è timidamente avviato in questi ultimi giorni sul tema degli articoli costituzionali sulla formazione: ed è la sostanziale assenza, nel discorso, di un’attenzione propositiva ai valori, ai principi, ai significati profondi dell’istituzione scolastica.
Eppure stiamo parlando di modifiche della carta costituzionale, di quel testo che simbolicamente dovrebbe fondare le comuni radici giuridiche di una nazione. Di fatto, ad essere fin qui trascurato, quasi occultato dietro un generico indirizzo progressista (le proposte, come sappiamo, vanno in direzione di maggiore “flessibilità, mobilità, compatibilità, comparabilità”), è il progetto di scuola che vogliamo. Che scuola vogliamo, appunto?Forse basterebbe questa constatazione, amara, per spiegare le ragioni per le quali oggi si presenta qui, pubblicamente, un comitato composito ma largamente rappresentativo del mondo della scuola (quasi tutte le associazioni e organizzazioni attive nel panorama formativo ticinese) a esprimere la sua viva preoccupazione per i nuovi indirizzi e per le conseguenze che potranno avere sulla scuola ticinese. Nuovi indirizzi che, precisiamolo da subito, possono ben essere intesi – anche se magari non sempre condivisi – in un’ottica pragmatica e che hanno anche qualche ragione di essere quando mirano ad eliminare fastidiose incongruenze federalistiche nel campo dell’insegnamento universitario o della ricerca. Ma indirizzi che, quando si volga lo sguardo alla scuola di base (e questa è una delle novità importanti della riforma), sono significativamente carenti di motivazione pedagogica e culturale.
Intendiamoci: nessuno vuole mettere in discussione il fatto che la scuola (in Ticino, in Svizzera e anche altrove) sia oggi confrontata con sfide nuove, con la necessità di ridefinire il proprio profilo di formazione. I radicali mutamenti sociali, economici e culturali ai quali abbiamo assistito in pochi decenni, lo sviluppo impressionante di nuovi paradigmi valoriali (si pensi anche solo alla globalizzazione dei mercati, alla standardizzazione dei linguaggi, alla diffusione delle nuove tecnologie, all’affermazione di un consumismo formativo) sollecitano risposte educative capaci di mantenere ben ferma l’attenzione allo sviluppo dell’allievo come persona, alla sua maturazione intellettuale e culturale, al pensiero critico e all’indipendenza di giudizio.
Abbiamo bisogno di una formazione di qualità. Abbiamo bisogno di una scuola che ritrovi un’anima pedagogica e una progettualità politico-culturale per fare diga all’imperante banalizzazione di certo consumismo culturale e di certo pedagogismo strumentale.
Questo è il punto su cui possiamo ritrovarci. Vogliamo tutti una scuola di qualità.Ora, chiediamoci che cosa ci offre in questo momento, in nome di un inconsueto “spazio formativo svizzero”, la nuova proposta costituzionale e il conseguente progetto di armonizzazione della scuola dell’obbligo (concordato HarmoS). Quale riforma propone per i sistemi formativi di base? Di fatto l’attenzione si concentra quasi esclusivamente sull’uniformazione di:
età dell’obbligo scolastico e struttura della scuola;
durata delle fasi della formazione;
standard di competenze e monitoraggio dei sistemi.
E’ in questo modo che si garantirà un miglioramento qualitativo del sistema? Noi non lo pensiamo. Anzi, per il Ticino temiamo esattamente il contrario.
Pare di capire che ragioni pratiche, comprensibilissime e condivisibili, soprattutto nelle regioni francofone e germanofone del Paese (spostamenti e mobilità delle famiglie), spingano in direzione di un’armonizzazione. Benissimo! Non abbiamo nulla da eccepire al riguardo. Certo è però che se fosse questa la ragione principale dell’innovazione, dovremmo concluderne che non era probabilmente necessario scomodare la Costituzione. Se si ricorre a una modifica della carta fondamentale ci deve essere anche altro: per esempio l’idea implicita che oggi un sistema scolastico, per essere al “passo coi tempi” deve essere perlomeno nazionale (se non internazionale!).
La questione è interessante, ma non scontata come ci si vorrebbe far credere. Cominciamo col dire che, almeno per la scuola dell’obbligo, il modello federale svizzero non ha dato fin qui una così cattiva prova di sé. Sistemi uniformi, come quelli delle nazioni che ci circondano, non garantiscono “prestazioni” superiori alle nostre. E aggiungiamo anche che spesso la nostra libertà di manovra, la vicinanza democratica del controllo, la forza identitaria dei nostri modelli formativi ci è sinceramente invidiata all’estero.Consideriamo poi il fatto che la standardizazzione dei sistemi scolastici non è di per sé garanzia di qualità. La scuola non è (ancora) un mercato formativo: la qualità in educazione, non si ritrova nella corrispondenza ai modelli più diffusi. Una scuola qualitativamente valida è - soprattutto in un paese multilingue e multicultrale come il nostro - una scuola di cultura, capace di identificare un consenso popolare, di garantire dignità all’insegnante e al suo difficile lavoro, di radicare l’allievo in una specificità culturale fornendogli contemporaneamente gli strumenti intellettuali per avvicinare la varietà e la complessità degli orizzonti di apprendimento.
Un albero, che slancia i suoi rami verso il cielo, che affronta le sfide dei venti e delle intemperie, che sa anche competere con le altre specie arboree, deve innanzitutto avere buone radici e una buona coltura.D’altra parte, nessuno nega che occorra evitare il localismo, la chiusura su se stessi. Abbiamo bisogno di confrontarci con gli altri e di promuovere valutazioni che ci permettano di migliorare la nostra scuola. Non siamo né i migliori né i detentori della formula magica.
E tuttavia non enfatizziamo oltremisura i monitoraggi (brutta parola!), il raggiungimento di standard di prestazione, le graduatorie internazionali. Chiedete a un insegnante qual è il peggiore studente, e senza dubbio vi risponderà che è quello che studia solo per il lavoro scritto. Ebbene, questa considerazione può valere anche per i sistemi formativi. Vogliamo una scuola che lavori in funzione degli standard di formazione? Una scuola che sia più attenta alle classifiche che non alle finalità educative? Questa sì che sarebbe una iattura. Non confondiamo (come purtroppo fa HarmoS) gli strumenti della valutazione con le finalità dell’educazione.Non vogliamo una scuola che elevi la misurazione delle prestazioni a idolo pedagogico.
Non sempre le competenze più importanti sono quantificabili, non sempre le conoscenze immediatamente spendibili sono le più preziose e spesso è proprio quel che non si può misurare che conta di più (si misura forse la curiosità intellettuale, il piacere per lo studio, l’autonomia di giudizio, la consapevolezza della propria identità culturale?).
La scuola non produce degli “standard” e anzi la differenza può essere una ricchezza. Non è un’azienda che produce caschi da motociclista che hanno bisogno di omologazione; semmai è luogo in cui si formano teste, si promuovono persone, si radicano coscienze, valori e intelligenze.
A questo noi dobbiamo riservare la massima attenzione. Su questo dobbiamo misurare le nostre scelte realizzative e il nostro modello strutturale.
C’è forse un motivo valido per prolungare il ciclo elementare di un anno e accorciare di un anno la scuola media? Se c’è lo si indichi e lo discuteremo. Purché non si tratti semplicemente di una legge dei numeri: siccome la maggior parte dei Cantoni pratica questo modello allora lo dobbiamo interpretare anche noi (magari negando la radice storica e culturale della nostra tradizione).
C’è un bisogno impellente di misurare il raggiungimento di standard di competenze? Facciamolo! Ma ricordiamoci che per un ragazzino ticinese rimarrà più importante la capacità di avvicinare
in maniera interrogativa una poesia di Giorgio Orelli o di Eugenio Montale (competenze di elevato tasso cognitivo) che il sapere decifrare correttamente le istruzioni di installazione del programma informatico (competenze medio-basse, rilevate dai test).
A scuola, paradossalmente, non è bravo solo quell’allievo che sa trovare la risposta ma anche quello che sa porre la domanda!