Nuovo contesto, nuove priorità
Constatiamo che nel suo impianto l’insegnamento delle lingue nella scuola ticinese risponde ancora a un contesto che da almeno un decennio è profondamente mutato, caratterizzato com’era da:
bisogni linguistici che si iscrivevano nell’area svizzera, ma che poi, per nostra fortuna, grazie al francese e al tedesco, ci aprivano alle tre grandi culture con cui confiniamo; francese e tedesco si imponevano allora come lingue seconde di prima opportunità;
una società che dal punto di vista linguistico era molto più omogenea di oggi. Gli allievi delle nostre scuole partivano in gran parte da un dialetto per imparare l’italiano considerato un po’ approssimativamente ‘lingua materna’; c’erano poi parecchi germanofoni, alcuni francofoni, pochi bilingui; rispetto alle lingue seconde erano (quasi) tutti principianti alla pari;
una didattica delle lingue elaborata per un insegnamento collettivo in classe e che poco o punto contava su appoggi esterni: presenza di lingue straniere nel territorio, uso personale di strumenti elettronici e di materiali didattici offerti dal mercato, viaggi e soggiorni in ambienti alloglotti.
Ultimamente l’insegnamento delle lingue è ridiventato un problema soprattutto perché quasi improvvisamente è mutato tale contesto geo-sociale, per causa delle seguenti novità:
la mondializzazione si è accelerata in modo impetuoso dopo la fine della guerra fredda e grazie al diffondersi delle nuove tecnologie della comunicazione. Sul versante linguistico ciò ha comportato un massiccio incremento dell’inglese che, piaccia o no, ne è lo strumento più appariscente.
L’inglese non è quindi un’infatuazione o un capriccio di moda, come taluni sembrano ancora pensare: è la lingua con la quale ormai si comunica (quasi) dappertutto in un mondo sempre più aperto e interconnesso. Diventa cioè la lingua globale necessaria per tutti, al polo opposto di quella locale, per noi l’italiano, altrettanto indispensabile.A nord come a sud del Ticino, si è ormai deciso di insegnare l’inglese come prima L2 a tutti gli allievi. Si può calcolare che già tra una decina di anni tutti i giovani europei sapranno comunicare tra loro in una medesima L2, certamente l’inglese. E’ evidente che la Svizzera, specialmente quella italiana, non potrà continuare a considerarsi un caso a parte, un’isola sui generis al centro del mondo; dovrà invece adeguarsi alla nuova realtà, se non vorrà rischiare di mettere in difficoltà i suoi giovani nell’incontro-scambio con quelli del mondo intero.
A questo punto, le altre due lingue nazionali, tedesco e francese, pur restando importanti per chi vive in Svizzera (e al centro dell’Europa), nel Ticino devono cedere il primo grado di priorità a italiano e inglese. Come tali, esse dovranno continuare ad essere imparate dagli allievi che
a) saranno in grado di farlo (neanche in futuro tutti i giovani saranno motivati o capaci di imparare più delle due lingue di prima priorità), e
b) saranno interessati a farlo, perché mirano alla maturità, desiderano trasferirsi a lavorare o a studiare nella Svizzera interna, intendono darsi a una professione che comporti la padronanza di tali lingue (o di una delle due).La società ticinese è ormai diventata multilingue, nel senso che i suoi membri parlano alcune decine di lingue ‘materne’ diverse e molti allievi portano a scuola un bagaglio linguistico del tutto nuovo rispetto al passato. Questo fatto modifica prima di tutto la funzione dell’italiano, che, da lingua ‘materna’ dei ticinesi qual era, diventa lingua ‘comune’ di una società ‘babelica’; lingua necessaria per l’integrazione sociale dei molti alloglotti, per la comunicazione intra-comunitaria, per l’evoluzione unitaria della cultura e della civiltà locali. In secondo luogo rende le scolaresche molto più eterogenee dal punto di vista linguistico, ciò che richiede (e permette) di diversificare i curricoli (e l’insegnamento).
Risposta alla consultazione promossa il 5 dicembre 2001 dal Dipartimento Istruzione e Cultura del Canton Ticino.
Dal momento che il Dipartimento Istruzione e cultura ha posto in consultazione fino all’8 febbraio 2002 un documento intitolato “Insegnamento delle lingue: interventi proposti dal Dipartimento”, questo rapporto prende ora la forma di risposta dell’Associazione per la scuola pubblica ai quesiti posti (v. pag. 14).
Ringraziando il Dipartimento di aver coinvolto l’Associazione per la scuola pubblica in tale consultazione, esprimiamo le considerazioni seguenti, senza la pretesa di detenere la formula capace di risolvere d’incanto un problema obiettivamente intricato.
Diciamo, prima di tutto, che la nuova situazione impone che ci si interroghi ex novo sul quadro complessivo dell’insegnamento linguistico nelle scuole del Cantone. La domanda alla quale occorre trovare una risposta sgombra da pregiudizi e lungimirante è “quale insegnamento delle lingue (L1 + L2) si raccomanda per i giovani che vanno a scuola nel Ticino di questo inizio di secolo XXI., affinché essi possano far fronte alle loro necessità anche in futuro?”a) Sono condivisi i principi che stanno alla base della proposta formulata dal Dipartimento?
Rispondiamo che quelli enumerati sono principi di carattere pedagogico difficilmente contestabili, che noi anzi condividiamo. La difficoltà consisterà semmai nel confermarli nei fatti, in fase di applicazione, come preciseremo più avanti.
Nel documento del DIC manca invece la descrizione e l’analisi del contesto politico e culturale che rende necessaria la riforma prospettata e manca perciò una disamina argomentata di bisogni e priorità sulla quale ci si possa confrontare.
In particolare:
data l’indiscutibile complessità della nostra situazione linguistica, ci sembra necessario che il DIC offra la propria descrizione aggiornata e chiami a misurarsi su di essa. Se il contesto resta implicito e quindi in qualche misura diverso per quelli che si chinano sul problema linguistico, ben difficilmente ci si potrà poi accordare su ciò che va fatto nelle scuole. Di più, fin che non c’è una visione d’insieme persuasiva alla quale riferirsi, interessi collaterali (per esempio corporativi o ideologici) arrischiano di compromettere le soluzioni.
Come Ticinesi (o Confederati) non possiamo più, perché non ci conviene più, nasconderci dietro una tradizionale ma acritica esigenza di coesione nazionale (pag. 3), che sarebbe soddisfatta quando i soli italofoni imparassero le altre due lingue nazionali (visto che le altre due aree linguistiche non rispondono comunque con provvedimenti simmetrici). In altre parole, non è detto che al Ticino basti essere il Cantone dove si studiano più lingue, per soddisfare al meglio i propri bisogni futuri.
Sia detto per inciso: occorre distinguere tra il bene della coesistenza di lingue e culture diverse in Svizzera da una parte e la loro intercomunicazione dall’altra. A parer nostro:
la forza delle singole aree linguistico-culturali della Svizzera dipende dalla qualità della cultura che si pratica in ciascuna; cresce cioè di pari passo con la lingua-cultura del posto (per noi l’italiano);
la coesione tra le aree può essere garantita sì dalla diffusa conoscenza delle altre due lingue (il plurilinguismo interno, del quale nessuno nega l’utilità), ma anche da una lingua esterna comune, purché ben conosciuta da tutti (addirittura, con questo mezzo può essere garantita meglio che dalle altre lingue nazionali possedute da pochi e male);
se tale lingua fosse l’inglese, i Ticinesi potrebbero perfino avvantaggiarsene: si ritroverebbero alla pari con gli altri confederati a dover usare una Lingua 2 e non più in soggezione, come spesso finora, dovendo quasi sempre usare le lingue degli altri.
Ci sembra insufficiente giustificare l’allargamento dell’inglese nelle nostre scuole, parlando semplicemente di una “forte richiesta di insegnamento della lingua inglese” (pag. 3). Qual è il motivo di tale richiesta? E’ un motivo che davvero giustifica una riforma, oppure no? Trattandosi, come si è detto, di una situazione in gran parte nuova, occorre persuadere chi ancora non lo fosse, per non correre il rischio di trovarsi di fronte a resistenze imbarazzanti.
Non ci convince il fatto di appoggiarsi ad un’iniziativa parlamentare (Berberat) e ad un avamprogetto di legge federale sulle lingue nazionali, che vorrebbe imporre “la precedenza all’insegnamento di una seconda lingua nazionale” (si tratta di atti parlamentari in fieri; non è detto che abbiano successo), per mantenere (consolidare) l’insegnamento del francese nelle nostre SE (fin dalla terza classe). Tale ‘vincolo’ indicato (imposto?) dal Consiglio di Stato (pag. 4) non ci sembra più sostenibile.
Infatti:
oggi da noi non esistono più le motivazioni che potevano raccomandare il francese, quando era sentito come la nostra lingua sorella di maggior prestigio nel mondo; era in qualche misura presente nella nostra società, perché importata da emigranti e funzionari federali; era considerata di facile approccio per i nostri allievi (in gran parte dialettofoni, come osservato);
semmai motivazioni analoghe perorano oggi la causa dell’inglese come L2 iniziale: i nostri giovani lo recepiscono, anche se confusamente, come lingua mondiale presente nel paese con segnali e iscrizioni, espressioni d’uso ormai corrente, canzoni e film, computer e Internet, discorsi e testi di vario genere… In misura crescente l’inglese è sentito anche nel nostro paese come una vera seconda lingua. Istintivamente i giovanissimi ne sono incuriositi, spesso affascinati. Questo statuto (diffusione, utilità, prestigio, simpatia) sembra rendere l’inglese particolarmente adatto a fungere da prima L2, che deve servire anche per invogliare i giovani a lanciarsi nell’apprendimento delle lingue.
Sui principi pedagogici (enumerati al punto 2. del documento):
Proprio perché si tratta di principi condivisibili, sarà importante che la realtà non li contraddica. Senza voler essere troppo analitici, nelle proposte fatte noi qualche rischio lo intravediamo.
Per esempio, il plurilinguismo così come presentato a pag. 5 è sì un valore, ma va coltivato con dosaggi attenti. Se si esagera nel caricare gli allievi, specialmente nella scuola obbligatoria, il plurilinguismo rischia di ridursi a una finzione, o, peggio, di provocare reazioni di rigetto, così facili negli adolescenti.
Le proposte del DIC (sotto 2.6) non escludono il rischio che il sovraccarico dia luogo ad una babele di barbari (= gente che balbetta più lingue) e di analfabeti culturali (perché possiedono soltanto frammenti di lingue fuori contesto).Infatti:
aumentare le esigenze (per esempio, il francese scritto nelle SE) senza aumentare le ore di lezione comporta aumento d’intensità e di ritmi, dunque di fatica, a scapito dell’assimilazione, di altre discipline, di altri obiettivi prioritari (per esempio, educativi);
insegnare due lingue straniere in contemporanea nella Scuola media può essere eccessivo:
a) per molti allievi poco motivati o poco dotati;
b) per molti allievi alloglotti, per i quali è lingua straniera anche l’italiano (in totale gli alloglotti sono il 20%!);è assai dubbio che i provvedimenti proposti aiutino a ‘salvaguardare l’equilibrio tra le diverse aree disciplinari’ (2.6.c); è anzi più probabile che l’area linguistica diventi preponderante.
b) Come si valutano gli interventi indicati al pto. 3 e i diversi provvedimenti prospettati?
Ci limitiamo alle principali perplessità:
Nel loro complesso le proposte dipartimentali aggraverebbero ancora il carico già oggi eccessivo delle scuole dell’obbligo. Si parla infatti di potenziare il francese nelle SE (v. pto 3.4). Nella SM ci sarebbe questa situazione: in prima, 2 lingue (italiano e francese), in seconda, 3: italiano, francese, inglese; in terza, 3 (o 4): italiano, inglese e tedesco (e ancora francese); in quarta, 3 (o 4): le stesse della terza. Senza contare eventualmente il latino.
Decisamente troppo, se si pensa che, per esempio, nel ‘vecchio ginnasio’, con scolaresche già selezionate, fino alla terza ci si limitava a italiano e francese!
Delle due l’una: o le classi attuali (eterogenee per lingue di provenienza, capacità e motivazioni) hanno maggiori facilità a imparare le lingue (semmai è vero il contrario), oppure il carico è eccessivo e non può essere sostenuto con risultati accettabili.Non ci dilunghiamo in analisi e dimostrazioni. Basta ascoltare i docenti, per capire che il carico è già ora eccessivo e tale da rendere problematico lo svolgimento dei compiti essenziali di educazione (art. 2 della Legge della scuola) e di istruzione (trattazione dei programmi).
Le classi sono in genere numerose (25 allievi per una lezione di lingua possono essere troppi); sono molto eterogenee sia per motivazioni sia per capacità degli allievi; sono spesso gravate da problemi comportamentali che ne rendono difficile la gestione e ne rallentano il lavoro prettamente scolastico…
Il fatto di dover insegnare tutte queste lingue a tutti gli allievi della fascia obbligatoria potrebbe avere conseguenze pericolose. Infatti, o la scuola obbligatoria assume i ritmi degli allievi migliori e diventa selettiva (contro la propria natura); oppure assume tendenzialmente quello dei più lenti (cosa più probabile) e allora il rendimento potrebbe essere davvero basso in molti casi. Tanto da doversi domandare se valga la spesa (in soldi e fatiche).
Nel primo caso si trascurerebbero gli allievi più lenti, nel secondo si annoierebbero i più capaci… Ci si può domandare se la combinazione di esigenze così ampie con le possibilità reali delle nostre classi non ponga un problema vicino alla quadratura del cerchio. In particolare, le nuove proposte verrebbero a rendere ancora più difficile quello che a detta di molti è già oggi il biennio più problematico: il ciclo di Orientamento della SM.
Non vorremmo che il fallimento della scuola di fronte a compiti palesemente esorbitanti come il nuovo insegnamento linguistico desse luogo un domani a ulteriori malcontenti e rimproveri di inefficienza da parte di un’opinione pubblica delusa.Un altro obiettivo che per essere raggiunto richiederebbe alleggerimenti e non aggravi di richieste è il potenziamento dell’italiano (v. pto. 2.2).
Quello che si afferma alle pag. 5 e 6 va preso molto sul serio. Per noi l’italiano è e deve restare la lingua all’altro polo rispetto all’inglese: la lingua regionale al polo opposto di quella globale. Senza la lingua globale si può finire isolati dal mondo, ma senza la lingua ‘locale’ si arrischia l’anomia, che è ancora peggio.
Orbene, pur ammettendo la possibilità di migliorare il coordinamento e la didattica delle lingue (secondo il pto. 3.2), non crediamo che nel quadro delle nuove proposte ci sarebbe spazio per potenziare davvero l’apprendimento dell’italiano. Temiamo anzi che nel nuovo modello “i tangibili miglioramenti rispetto alla situazione attuale” (v. pto. 3.8) siano destinati al limbo delle buone intenzioni. Occorrerebbero infatti provvedimenti ben più reali, sulla linea, per esempio, delle proposte avanzate dagli esperti di disciplina (momenti di attività differenziate sia di ricupero sia di sviluppo, laboratori di scrittura, ecc.).c) Per tutte queste ragioni, l’Associazione per la scuola pubblica non può “condividere l’intenzione del DIC di introdurre progressivamente le innovazioni previste a partire dall’anno scolastico 2003-04”.
Sia detto limitatamente alle scuole dell’obbligo, perché, invece, il potenziamento dello studio delle lingue nel post obbligatorio, in particolare, nel professionale, ci trova del tutto consenzienti.
Siccome provvedimenti come quelli prospettati potrebbero avere conseguenze pesanti ed essere di difficile correzione, l’Associazione ritiene necessario un riesame più approfondito della politica d’insegnamento linguistico, specie nelle scuole obbligatorie del Cantone, tenendo conto maggiormente
della situazione reale delle scolaresche (messe sotto pressione da esigenze già oggi in qualche misura esorbitanti, confrontate con difficoltà di gestione dovute in parte all’eterogeneità delle classi e alle diversissime motivazioni degli allievi);
del fatto che gli allievi di oggi hanno un bagaglio linguistico e culturale di partenza (personale) quanto mai diversificato, hanno esigenze e possibilità linguistiche pure molto differenziate;
del fatto che oggi la formazione di base va avanti fino ai 25-30 anni, per non parlare della formazione continua (per cui non si vede la necessità di intasare la scuola dell’obbligo con insegnamenti men che fondamentali).
Ci domandiamo infine se la complessità del problema e la novità della soluzione non consiglino di precisare bene quale dovrà essere la situazione finale dell’insegnamento linguistico riformato, a medio-lungo termine; per poi graduare la transizione nei modi più indolori possibili (in particolare per il corpo insegnante).
Ci lusinghiamo di poter essere di qualche utilità con queste nostre osservazioni, ringraziamo dell’occasione dataci e porgiamo i migliori e più distinti saluti.