ASSOCIAZIONE PER LA SCUOLA PUBBLICA DEL CANTONE E DEI COMUNI IN TICINO


La quantità non dà “credito” al sapere


Un’iniziativa parlamentare del gruppo Ppd chiedeva, pochi mesi or sono, di definire per legge l’obbligatorietà dell’aggiornamento dei docenti.
Proposta ragionevole, anzi, apparentemente ovvia, poiché è chiaro che la professionalità del docente - come di molte altre categorie - richiede anche un aggiornamento costante; tant’è vero che la legge attuale ne fa menzione, ma lo lascia alla responsabilità individuale dell’insegnante. Adesso, invece, l’iniziativa parlamentare vuole definirne l’obbligatorietà e, naturalmente, prevede di “monitorare” regolarmente l’osservanza dell’obbligo. In che modo? “Indicando in modo vincolante il numero di crediti certificati da dedicare annualmente ai corsi di aggiornamento”. È un segno dei tempi: la “qualità” va certificata e lo si fa con criteri quantitativi, con quella specie di raccolta-punti che oggi si chiamano “crediti”. In passato il docente responsabile e serio si teneva aggiornato nel modo più ovvio e proficuo: leggendo libri, studiando. Ma si capisce che “certificare” le letture fatte da un insegnante è molto più difficile che rilasciare un timbro di frequenza al termine di un corso: in primo luogo occorrerebbe che il “certificatore” avesse lui stesso letto molto - cosa non sempre scontata - e poi la verifica richiederebbe tempo, impegno e competenza. Molto più spiccio e comodo rilasciare un attestato di frequenza: vale tot crediti, se in un biennio o in un quadriennio ne hai collezionati molti sei un bravo docente, altrimenti, se hai perso tempo a leggere libri, non lo sei. Se poi hai frequentato svogliatamente i corsi d’aggiornamento, o magari hai assicurato la sola presenza fisica mentre la mente vagava altrove, poco importa: i crediti te li sei guadagnati. Mi dicono che un simile passaggio da una valutazione qualitativa alla certificazione burocratica sta dilagando anche in altre professioni: ad esempio, tra il personale ospedaliero. Se un medico o un infermiere redige i rapporti e compila i formulari richiesti, se rispetta scrupolosamente gli orari di lavoro e la prassi codificata, allora è un bravo professionista; se poi dedica tempo extra al capezzale del malato perché la cura del paziente e la dedizione al lavoro lo richiedono, questo passa inosservato.
E pensare, invece, che il contatto umano, la solidarietà con chi soffre, un piccolo gesto di grande valore affettivo sono le cose che il paziente apprezza particolarmente nella degenza ospedaliera, perché è grazie ad esse che si sente riconosciuto come persona; altrimenti è solo un corpo rotto da aggiustare. La quantità è certificabile secondo parametri standard, la qualità invece si può apprezzare solo con l’esperienza personale: ma oggi siamo nell’era della tecnica, e la tendenza è di trasferire all’uomo l’efficienza senza passione che ci si attende dalle macchine. Il numero di giri di un rotore è misurabile, come la frequenza di emissioni d’onda o il tempo di reazione di una fotocellula; la dolcezza di un sorriso, l’intelligenza di una spiegazione didattica, l’umanità di uno scambio interpersonale non lo sono.
Adottando il modello della tecnica rinunciamo alla qualità e facciamo trionfare l’esecuzione meccanica e la burocrazia che la certifica.

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