L’antivigilia di Natale è apparso su ‘laRegione’ un intervento bello e importante del filosofo e professore Fabio Merlini. Parlava di scuola o meglio di educazione e faceva venir voglia di raccogliere subito il testimone. Uno dei molti pregi del contributo di Merlini è quello che a prima vista potrebbe sembrare un suo difetto: la genericità. Merlini non si perita di indulgere nei proclami: le sue parole assumono il carattere di un appello, nel senso migliore del termine. Parla di logiche che è giunto oramai il tempo di capovolgere e dell’esigenza, al di là dei contenuti particolari, di “lavorare per ridare fiato all’apertura del futuro”. Questo sarebbe il compito al quale dovrebbe confrontarsi chi opera nel complesso mondo dell’insegnamento.
Io ho attraversato il sistema scolastico ticinese abilitandomi due volte nello spazio di una decina d’anni, prima all’Istituto per l’abilitazione e l’aggiornamento poi all’Alta scuola pedagogica. In seguito ho lasciato la professione per seguire un’altra strada. Prendo la parola dunque da osservatore esterno che, impegnato in altro e dunque poco più che distratto, può comunque vantare qualche esperienza diretta. Mi sento quindi di potere formulare tutt’al più qualche domanda. A livello di istanze decisionali e di strutture organizzative, il ‘sotto-sistema’ educativo, come credo direbbero gli happy few informati, è infatti troppo intricato e lascia per sua natura così poco spazio a velleità di pilotaggio esterno, che qualsiasi soluzione sbandierata rischia sempre di cadere nel più banale feticismo. Risulterà utile più che altro a sincerarsi della propria buona coscienza e gettare fumo sulla vera natura delle pratiche e dei processi sociali veramente in gioco. Il che non fa mai male, almeno a giudicare da quanto sia un atteggiamento diffuso.
Conservo però quel tanto di donchisciottismo (si dirà: a ognuno il filisteismo che si merita), da volere comunque spendere anch’io un poco del mio “fiato”.
In parole veramente troppo povere: si potrebbe dire per amore di semplicità e allo scopo di suscitare un dibattito, ma è del resto un fatto universalmente noto, che la concezione moderna del sistema delle scienze e di riflesso di quello educativo si cristallizza attorno a Kant e Humboldt tra fine del XVIII e inizio del XIX secolo. Due furono essenzialmente le esigenze cui rispose: da un canto liberare il sapere dalla tutela della teologia, dall’altro non cadere vittima delle scienze e dei fini particolari che per loro natura queste perseguono. Al centro doveva essere messo un sapere che, guidato da principi di verità e libertà e al riparo da censure statali e da interessi utilitaristici, potesse servire da orientamento alle discipline e fornire loro gli strumenti per riflettere sulla loro valenza, sulla loro portata e sui loro limiti. In concreto per l’università questo significava indipendenza, libertà di ricerca e totale autonomia rispetto al sistema della formazione professionale. Come poi tutto questo possa veramente essere realizzato, beh, benvenuti nella storia, va da sé che è il terreno di polemica infinita; ma poco importa, conta il principio.
Prendiamo una distinzione di comodo, anche se pericolosa: quella tra forme e contenuti. Quanto alle forme tocca parlare dell’abilitazione, ora una formazione universitaria professionale. Occorrerebbe prenderla alla larga, ma qui non possiamo. A ogni modo, molto più gravi delle ambizioni di scientificità della filosofia a partire dalla fine del Settecento, ci paiono quelle opposte e correlate delle scienze a sostituire la filosofia: di volta in volta saperi particolari hanno preteso, in maniera più o meno dichiarata, di assurgere a meta-scienza, vale a dire di costituire quel discorso generale a partire dal quale si lascia circoscrivere l’ambito particolare di tutti gli altri. È una storia che di volta in volta si potrebbe raccontare della biologia, dell’antropologia, della sociologia, dell’economia, della storia, della linguistica. Nel caso delle così dette scienze pedagogico-didattiche, ricordiamo solo le parole del ‘Disagio della civiltà’ di Freud: si tratterebbe di realizzare finalmente “una deduzione psicologica della cultura”. Ma che cosa ha la psicologia da dire alla filosofia, alla storia, alla letteratura? Non ha forse come forma simbolica particolare piuttosto da imparare qualcosa da loro?
Difficile qui entrare veramente nel merito. Ricordo solo che in proposito Georges Canguilhem ha scritto pagine difficili da dimenticare. Il grande storico e filosofo delle scienze della vita ricordava che uscendo dalla Sorbonne si può o salire in direzione del Pantheon o scendere verso la prefettura di polizia. La psicologia si troverebbe di fronte allo stesso bivio. Se si erge a meta-scienza vuole fare filosofia senza averne i mezzi: diventerà allora campo per periti, servitori di tutti i padroni o, insomma, del primo che capita. Il fallimento dell’attuale sistema di formazione degli insegnanti è oramai un fatto di dominio pubblico: non si vorrà continuare a credere che si possa spiegare tutto con un problema di persone.
Occorrerà dunque ritornare alle discipline, alle competenze specifiche, ai programmi e ai contenuti. Sì, certo, in linea di principio, come non essere d’accordo? E come non credere che, al di là dei facili formalismi, solo una comprensione veramente profonda della natura di quello che si sta insegnando può permettere di scegliere le forme e i modi per riproporre un’esperienza autentica degli orizzonti di conoscenza dischiusi dalla propria materia? Ma le discipline hanno gli strumenti, specie sul piano della riflessione su loro stesse, per compiere questo tipo di lavoro? Oppure vengono insegnate secondo un approccio tecnicistico orientato solo all’acquisizione di nozioni e procedure, senza mai porre la domande dei fini? Ma il nostro sistema politico non è retto forse, ora che vogliamo credere di avere superato le guerre di religione, quelle ideologiche e il sangue corso in loro nome, su un sistema di creazione e mediazione del consenso basato fondamentalmente sui saperi tecnici e sul funzionalismo di cui questi fanno da garante? (Chissà perché qui ci viene in mente quel vecchio romanzaccio di fantascienza di Huxley, ‘Brave new world’?). L’imbarbarimento del dibattito pubblico (fino al riflesso nazifascista del "Rom raus" di un paio di estati fa) cui assistiamo che cosa altro è se non l’altra faccia di questo degrado del politico?
La riforma che nel volgere di un decennio ha sconvolto, senza che nessuno capisse chi avesse deciso o, insomma, senza che probabilmente nessuno decidesse, il sistema universitario europeo non è forse stata dettata dall’impellente bisogno di abbassare l’età di entrata nel circolo produttivo di forza lavoro fresca altamente qualificata? Un’università acefala, che alza la gonna a tutti i venti, disposta a vendersi a tutte le professioni, quale sapere e quale consapevolezza può offrire al giovane insegnante che nel suo intimo si culla ancora nelle chimere di promozione sociale spacciate a larghe mani dalla democratizzazione del sistema formativo dei beati anni del miracolo economico?
Ho un carissimo amico che ha avuto la fortuna di vivere dall’interno gli anni della fondazione dell’Usi. Mi assicura che la più grande preoccupazione era allora quella di garantire agli studenti l’accesso a un numero sufficiente di stages. L’amico esagera, di sicuro. Ma come non chiedersi quali siano i criteri che hanno spinto a decidere che ‘le scienze della comunicazione’ costituiscano di per sé una disciplina? Immagino sia una questione strettamente epistemologica.
Prendiamo la lingua e la letteratura italiana, materia che un poco conosco per averla studiata, insegnata e in seguito a malincuore negletta. Lo spazio mi costringe a essere assolutamente ingeneroso e a cavarmela con una battuta che lascia il tempo che trova ma che non è priva di un fondo di verità. “Filologia e critica” diceva qualcuno il secolo scorso (e un paio di secoli prima ancora, anche “filologia e filosofia”: era il Vico): oggi si vuole una filologia come critica. La poverina avrà, tuttavia, le spalle abbastanza larghe per farsi carico sola di una responsabilità tanto grave?
Un grande filosofo ha parlato dell’arte, della religione e della filosofia come dei momenti in cui la riflessione che l’umanità compie su se stessa e sulle proprie espressioni conosce il proprio coronamento (si trattava di Hegel). Nel nostro liceo che rimane, per il predominio di cui godono le scienze particolari, una scuola di impianto positivista a religione e filosofia è riconosciuto uno spazio poco più che subalterno. E ancora occorre andarne fieri, perché nel resto della Svizzera la situazione è anche peggiore. Restano così solo l’italiano, la storia, ma anche la storia dell’arte, le lingue classiche e le lingue seconde per quanto il compito di insegnare la lingua lasci spazio a considerazioni culturali. Ma queste, e in particolare l’italiano cui viene riconosciuto un ruolo particolare come insegnamento della lingua materna, hanno veramente gli strumenti per assumersi il ruolo di chiave di volta che l’organizzazione delle discipline all’interno del liceo di fatto attribuisce loro? Un discorso analogo, credo, si potrebbe del resto aprire per quanto riguarda il ruolo della matematica rispetto alle scienze naturali.
Domande, domande, domande. Comunque sia, auguri di cuore a chi di scuola non si limita a parlarne ma giorno per giorno investe le sue migliori energie per farla, nel bene e nel male. La conclusione può essere lasciata a Merlini: “La scuola, a tutti i suoi livelli, è continuamente confrontata con gli effetti di questa assenza di prospettiva. Ma sa, o dovrebbe sapere, che dove non c’è prospettiva non può esserci nessuna autentica adesione e partecipazione a un insegnamento, a un discorso, a un progetto educativo”.