Ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario di un dibattito culturale che divise profondamente il mondo cattolico ticinese. Esso sorse attorno all’insegnamento della religione, in margine alla discussione allora in atto sulla riforma legislativa globale della scuola pubblica. Di fatto il nocciolo dello specifico contendere non fu tanto legato agli spazi dedicati, nel progetto governativo, a quella materia e alle sue concrete modalità organizzative: piuttosto si svolse su un principio di fondo, cioè la libertà o meno dei cattolici impegnati in politica di compiere, e non solo su temi del genere, le proprie scelte, secondo scienza e coscienza, indipendentemente dalla volontà della gerarchia ¨ecclesiale (in sostanza, il Vescovo Monsignor Jelmini, scavalcando tutti, si era accordato sull’argomento direttamente, e non senza qualche disinvoltura, con il Consigliere di Stato liberale Brenno Galli, cercando poi di imporre la soluzione predefinita). Si era in tempi preconciliari, e si sa come andò a finire: se Jelmini non vinse del tutto la partita (persino il Vaticano dovette intervenire per sopire il conflitto, e lo fece criticamente nei confronti della Curia), resta il fatto che l’articolo di legge da lui concordato è ancora quello, nella sostanza (malgrado una modifica del 1991), che ci trasciniamo dietro da ormai cinque decenni. Troppi, visti anche i mutamenti intervenuti nella nostra società, per impedire una nuova riflessione critica su questo punto.
Su queste colonne nelle scorse settimane è stato dato ampio risalto, in termini esplicativi, al fatto che il Dipartimento dell’istruzione ha aperto una consultazione sui risultati cui è giunta una speciale commissione incaricata d’occuparsi della questione, dando seguito a due diversi atti parlamentari che chiedevano di riesaminare lo statu quo dell’insegnamento della religione nelle nostre scuole pubbliche. Se non è il caso di entrare qui una volta ancora nei dettagli delle proposte sinora scaturite, è però il caso di dire che l’idea di fondo che sottende alla modifica legislativa è quella di estendere tale insegnamento a tutti i ragazzi (oggi di fatto è materia facoltativa, finanziata sì dallo Stato, ma affidata alle cure delle Chiese riconosciute) eliminando però la sua valenza confessionale, con quel che ovviamente ne discende sul piano pratico e organizzativo.
All’origine sta la convinzione, per altro largamente diffusa e ampiamente condivisa da buona parte dell’opinione pubblica, che valga la pena offrire ai giovani, nessuno escluso, una migliore conoscenza culturale dei fenomeni religiosi. Ciò non significa, naturalmente, non tener conto della preponderante rilevanza, nel nostro contesto, delle radici cristiane. Non vuol dire, cioè, gettare a mare ciò che è stato fatto sin qui (e ancora si sta facendo) in questo campo: vuol dire cercare una soluzione nuova del problema, che tenga conto anche degli interessi specifici delle Chiese, ma soprattutto quelli dell’intera comunità civile. La discussione è soltanto agli inizi. Come detto, si è ancora e soltanto in una fase di consultazione dipartimentale, dunque l’iter è ancora lungo prima che si arrivi ad una soluzione della questione in sede parlamentare. Proprio per tale semplice ragione, c’è da auspicare che nessuna delle parti in causa si chiami fuori già adesso dal dibattito, che si metta a sbarrare porte, ad innalzare steccati, a rivendicare primati e antichi privilegi. Sarebbe un vero peccato, un impoverimento per tutti. Se dico questo è perché mi pare di captare nell’aria che in parte del mondo cattolico (oltre che negli ambienti dei «Liberi pensatori») non si sia compresa la valenza culturale del progetto, e quindi spirino venti di chiusura, non di apertura e dialogo franco. I brutti segnali in questo senso, purtroppo, non mancano, e basti richiamare il programma elettorale del PPD che acriticamente si limita ad invocare il mantenimento della situazione attuale (in pieno accordo – sia detto per inciso – con quegli «atei devoti» tanto vicini oggi al cuore delle gerarchie cattoliche della vicina Penisola e che hanno di recente manifestato la loro esistenza anche da noi), o ancora a diverse prese di posizione negative di sacerdoti e laici clericali. Cosa dire? Che c’è da auspicare che non si ricada nel clima del 1957, che non abbiano a ripetersi quel genere di lacerazioni nel mondo cattolico (che nella fattispecie sarebbero ben più gravi, in fondo, di quelle avvenute attorno alla votazione sul finanziamento pubblico delle scuole private, che pure ci sono state), che piuttosto si sappia tutti dar prova di lungimiranza. La posta in palio lo merita. Intanto non resta che aspettare, ricordando che la crescita di una società civile la si misura anche dalla sua capacità di sciogliere, con serenità, equilibrio ma determinazione, nodi politico- culturali vecchi di cinquant’anni