La riforma dello statuto dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche ticinesi sta oramai diventando una “ telenovela” senza fine. Per chi non lo ricordasse, la vicenda entra nel settimo anno della sua storia. Risale infatti al marzo 2002 il primo atto parlamentare su questa materia (la cosiddetta "iniziativa Dedini") e al dicembre dello stesso anno l’iniziativa dell’allora granconsigliera Laura Sadis (e cofirmatari) in favore della sostituzione dell’insegnamento confessionale della religione impartito dalle chiese cattolica ed evangelica riformata con un insegnamento di cultura religiosa obbligatorio per tutti sotto la responsabilità dello Stato. Nell’ottobre 2004 venne costituita una commissione speciale governativa, che nel dicembre 2005 presentò un rapporto di maggioranza e due di minoranza. Nei primi mesi del 2007 i risultati del lavoro commissionale furono messi in consultazione fino al settembre dello stesso anno. Da allora dal palazzo governativo non è più venuto alcun segnale (almeno pubblico e ufficiale) e sono passati ormai sedici mesi. Si sa che i tempi della politica sono lunghi ma, di fronte alle reazioni suscitate dagli atti parlamentari e anche alla rilevanza della questione (pur non costituendo il principale problema politico del Ticino tocca ambiti considerevoli nel settore dell’educazione e della società) questo prolungato silenzio è poco comprensibile e preoccupante.
Ha fatto bene la rivista "Dialoghi" a rilanciare l’argomento nel numero dello scorso dicembre con un corsivo dal titolo "Chi vuole l’ignoranza provoca l’intolleranza". L’articolo, riferendosi al fatto che la proposta di riforma cerca di porre rimedio al dilagante fenomeno dell’ignoranza in fatto di religione, cita una raccomandazione del Consiglio d’Europa del 4 novembre 2005 che sollecita i governi a "incoraggiare l’insegnamento del fatto religioso per promuovere il dialogo con e tra le religioni e per favorire l’espressione culturale e sociale delle religioni".
"Dialoghi" ricorda pure l’osservazione contenuta nel rapporto della Commissione governativa secondo la quale la multiculturalità deve portare alla interculturalità e alla interreligiosità, in uno spirito di comunicazione e di dialogo.
Proprio queste ragioni hanno portato il Sinodo della Chiesa evangelica riformata nel Ticino, nel maggio 2003, a dirsi criticamente disponibile a sostenere la riforma affinché, come si legge nel rapporto della Commissione governativa "lo Stato istituisca un insegnamento di cultura, che non abbia lo scopo di confermare dei credenti, bensì di istruire dei cittadini". Da notare che la Chiesa evangelica riformata è stata la prima, fin dagli inizi di questo dibattito, a chinarsi sulla questione promovendo al proprio interno una vasta discussione che ha coinvolto i suoi diversi organi, secondo una prassi democratica, e ha portato a una giornata pubblica durante la quale sono state prese in esame le diverse possibili soluzioni in materia di insegnamento della religione nelle scuole. È scontato che, in una realtà come quella ticinese, una proposta di riforma che rimette in questione una prassi consolidata e ancorata in una convenzione recente fra lo Stato e le due Chiese riconosciute, sottoscritta nel 1993, susciti reazioni contrastanti e possa diventare motivo di conflitto. Anche le due chiese direttamente interessate hanno posizioni diverse al riguardo, pur perseguendo, in ultima analisi, lo stesso scopo con modalità e sensibilità differenti. La difficoltà di conciliare punti di vista lontani fra loro è emersa anche dalle conclusioni della Commissione istituita dal Consiglio di Stato che non è riuscita a trovare una base di accordo sulla quale dare avvio a un progetto di massima da tutti condiviso. Questo non giustifica tuttavia una sorta di congelamento della questione, cosa che invece sembra stia avvenendo. Gli atti parlamentari ricordati all’inizio riflettono infatti un disagio reale di fronte ad una situazione che per vari motivi risulta problematica rispetto alle esigenze poste oggi dalla scuola e dalla società e che deve, in un modo o nell’altro, trovare una risposta. Che questa non sia semplice né evidente è chiaro per tutti. L’auspicio è che possa diventare oggetto di un dibattito costruttivo, nelle sedi adeguate e nell’opinione pubblica, evitando che il confronto degeneri in conflitti politico- ideologici retaggio di una storia non tanto lontana o, ancora peggio, in una “ guerra di religione”. Ma un silenzio ispirato più dalla paura che dalla prudenza non porta certamente ad alcun progresso.