Durante la settimana di Carnevale (non è uno scherzo…), abbiamo appreso dalla stampa che anche il DECS, con colpevole ritardo, si è reso conto che è in atto il più importante ricambio generazionale degli insegnanti nella storia della scuola pubblica ticinese.
Nel giro di un decennio o poco più, tanto per rendere l’idea, è stata e dovrà essere sostituita buona parte del corpo docente, ciò che, nel contempo, porterà a modificare profondamente il volto della scuola stessa.
Finora i vertici del Dipartimento, di fronte alle preoccupazioni espresse dal Movimento della scuola e da altri organismi magistrali e sindacali, avevano sempre negato l’evidenza, ostentando tranquillità e affermando che la sostituzione dei docenti che lasciano l’attività poneva delle difficoltà in diversi cantoni, ma non nel nostro, dove la situazione era perfettamente sotto controllo.
Il DECS, che nel corso delle ultime legislature non ha brillato certo né per acutezza né per lungimiranza, ha sin qui affrontato il problema in modo diametralmente opposto a quanto suggerirebbero la logica e il buon senso. Invece di migliorare l’attrattiva della professione insegnante - scesa ai minimi storici a causa soprattutto dei mutamenti sociali e delle decisioni infelici, per limitarci a un eufemismo, in materia di politica scolastica - al fine di incentivare i giovani laureati a lavorare nel mondo della formazione, ha scelto di agire nella direzione contraria. Per esempio, oltre a diminuire di due classi lo stipendio iniziale e a peggiorare le condizioni di entrata nella cassa pensioni per i neoincaricati, ha assunto, in mancanza di un numero sufficiente di candidati in regola, varie decine di persone prive dei requisiti posti dai bandi di concorso e ha organizzato il discutibile corso per consentire ai maestri di scuola dell’infanzia e di scuola elementare di insegnare matematica nelle scuole medie (corso che, anche a causa dell’elevato tasso di abbandoni, si sta rivelando un vero e proprio fallimento).
E adesso, ciliegina sulla torta, al posto di cambiare coraggiosamente e radicalmente strategia, ha pensato di mettere un’ulteriore pezza all’insegna del sisalvi-chi-può, permettendo a chi non ha ancora acquisito la necessaria abilitazione pedagogico-didattica di insegnare nelle scuole cantonali. Un provvedimento sul quale si può essere d’accordo per ciò che riguarda la sostanza, ma sicuramente non per quanto concerne la forma, i tempi e le motivazioni.
È con una visione a medio-lungo termine, non con soluzioni raffazzonate alla bell’e meglio e dettate dall’urgenza, che si consolida un sistema formativo di qualità. Quello sintetizzato in questo scritto rappresenta l’ennesimo caso (non l’unico, purtroppo) in cui il DECS si è mosso maldestramente e, ciò che forse è ancora peggio, unilateralmente, senza ascoltare e coinvolgere coloro i quali, per formazione ed esperienza, meglio conoscono la realtà scolastica: i docenti. Un Dipartimento cieco e sordo, orientato più sulla contabilità che sulla pedagogia, continuerà ad arrivare troppo tardi o a non giungere del tutto dove servirebbe, dapprima smentendo che i buoi sono scappati e poi tentando disperatamente di chiudere la stalla quando gli animali sono ormai fuggiti da un pezzo. A nostro modo di vedere, occorrerebbe, invece, una gestione della politica scolastica maggiormente sensibile ed empatica, che condivida con gli insegnanti obiettivi e strategie. In mancanza di una netta inversione di rotta in questo senso, il clima di lavoro peggiorerà ulteriormente e per i vecchi e i nuovi docenti sarà sempre più difficile trovare dentro di sé le risorse per aiutare allievi, studenti e apprendisti a raggiungere quei risultati grazie ai quali la scuola pubblica ticinese, ancora oggi e nonostante tutto, gode di una buona reputazione.