ASSOCIAZIONE PER LA SCUOLA PUBBLICA DEL CANTONE E DEI COMUNI IN TICINO


La «Scuola che verrà» nel ciclone politico



Le società dalle quali proveniamo e dalle quali abbiamo ereditato, nel loro impianto di fondo, una buona parte delle nostre istituzioni politiche e formative, hanno pensato la riproduzione delle élite attraverso il concetto di selezione. Più precisamente, di una selezione agita attraverso lo strumento dell’educazione. Educazione e selezione sono processi correlati, poiché non è possibile formare senza operare una certa normalizzazione dei comportamenti e delle disposizioni: una condizione necessaria per poter garantire prestazioni socializzate pertinenti. Ma “pertinenti” rispetto a che cosa? Rispetto a ciò che il corpo sociale, o chi ne rappresenta gli interessi, o pretende di farlo, considera necessario e funzionale al buon funzionamento dell’insieme. Vi è però un problema. Ogni selezione, oltre a favorire la normalizzazione, con la sua sofferenza necessaria, si articola in base a un meccanismo complesso che potremmo chiamare di illuminazione e ottenebramento: alcune disposizioni vengono esaltate, altre deprezzate, non tenute in conto, se non addirittura rese invisibili. Non è detto però, e qui risiede il problema, che queste ultime non siano a loro volta doni preziosi, capaci se riconosciute, valorizzate e quindi coltivate di rendere un servizio alla comunità; di accrescerne il benessere; di contribuire a correggerne le distorsioni. Pensare l’educazione attraverso la selezione ha ovviamente i suoi vantaggi, come vediamo nei modelli organizzativi verticistici. Ma presenta anche notevoli handicap, poiché irrigidisce i margini di azione, proprio per il tipo di risposte in grado di offrire – vale anche per i sistemi fortemente normativi. E questo è vero soprattutto quando abbiamo a che fare con realtà dinamiche, in costante trasformazione. Qui, è la stessa azione selettiva a perdere la certezza dei suoi riferimenti; non comprende più bene rispetto a quale piano ideale operare il discrimine, secondo quali criteri e per quale motivo. Ciò che appena prima sembrava degno in ogni caso di valorizzazione, viene ora investito dalla luce del sospetto: servirà davvero ancora? Rispunta così la domanda fatale, quella che si chiede di cosa abbia davvero bisogno una società, per poter crescere.

È allora assai curioso che proprio in un momento di incertezza qual è quello attuale, uno dei punti forti della sperimentazione del progetto «La Scuola che verrà», vale a dire il superamento della logica selettiva dei livelli, sia oggi al centro di una serrata critica politica. Mi limito a un solo rilievo. Per come l’abbiamo conosciuta, la selezione delle prestazioni per accedere al liceo è stata forse uno dei principali fattori che, alle nostre latitudini, hanno contribuito negli ultimi decenni a perpetuare il pregiudizio di una formazione di serie A, corrispondente al cursus accademico, e di una formazione di serie B, relativa ai percorsi professionali. È ovvio che gli studi liceali debbano richiedere impegno e convinzione. Nessuno pensa infatti a una scuola irresponsabilmente egualitaria, improntata a una equivoca applicazione del sacrosanto principio della democratizzazione dell’accesso agli studi. Il punto è come assicurare un riconoscimento equo delle variegate potenzialità degli allievi, senza riprodurre privilegi che non hanno nulla a che vedere con lo sviluppo dei loro talenti e la presa a carico delle loro difficoltà. Impegno e convinzione devono poter essere coltivati ben al di là dei risultati conteggiati in un paio di materie ritenute, più di altre, esemplari e virtuose (su quali basi, perché, partendo da quale rappresentazione degli interessi in gioco?). La selezione, intesa così, occorrerebbe finalmente riconoscerlo, è un operatore direzionale orientato al riconoscimento del valore: di qua o di là, sopra o sotto, dentro o fuori. Con tutto il pathos che queste contrapposizioni classiche generano presso allievi, docenti e famiglie. Per non parlare neppure delle frustrazioni, che come ormai sappiamo bene, se proprio vogliamo essere cinici, generano in ultima analisi costi individuali e sociali non indifferenti anche dal punto di vista economico.

Non è concepibile che per un verso si perori la causa della formazione professionale, rafforzandola, riqualificandola e rendendola il più possibile permeabile ad altri possibili sbocchi formativi e professionali, e d’altra parte si avvalori il meccanismo della selezione esclusiva. La contraddizione è patente, così come lo è il danno che questa logica arreca alla formazione professionale. Solo se la via professionale è percepita come una reale opportunità per profili differentemente talentuosi, rispetto allo standard accademico, l’investimento darà i suoi frutti. Per questo, occorre lavorare seriamente sul terreno della differenziazione e della personalizzazione, il solo strumento in grado di convertire in risorse quelli che a prima vista appaino come dei limiti. Per chi si occupa di formazione professionale è preoccupante constatare come troppe volte questa via corrisponda ancora a un percorso imposto, al risultato di uno scacco, anziché ad una scelta consapevole, vissuta in modo responsabile. Non perché manchi la passione, ma semplicemente perché la sensazione, dolorosissima per chi la subisce, è di non avercela fatta là dove secondo la rappresentazione corrente, e dunque anche le aspettative dei genitori, sarebbe stato più meritorio riuscire. Come si costruisce la sensazione di questo scacco? Questa è la domanda che dobbiamo porci. Pensare per livelli è una scorciatoia che sovente imbocchiamo con la pretesa di essere realisti e responsabili, il più delle volte però ciò accade per la nostra incapacità di capire che l’idea di un modello esclusivo di intelligenza, di predisposizioni e, infine, di abilità, è un’astrazione capace di generare, quando tradotta nella pratica, una violenza inaudita. Su questo occorre lavorare ancora molto, e a me sembra che la sperimentazione relativa al Progetto di riforma vada in questa precisa direzione. Il che è di per sé un motivo assolutamente valido per non affossarla. Tanto più che il modello su cui oggi si discute è il risultato di una fase di consultazione presso i diversi attori in gioco dalla quale sono emerse critiche, obiezioni e necessità di miglioramento cui hanno fatto seguito modifiche importanti. Se si concretizzerà una fase allargata di sperimentazione altri correttivi, immagino, saranno poi verosimilmente apportati, prima della sua applicazione. Il mio invito è di liberarsi dei troppi pregiudizi che inquinano il dibattito, soprattutto in vista delle sfide insidiose alle quali dovranno confrontarsi le nostre società in un futuro che è ormai già in gran parte fra di noi.