C’è qualcosa di eroico oggigiorno – lo dico senza ironia – in chi sceglie il mestiere di insegnante, che poi svolga bene o male il suo mestiere. Non intendo discutere il crescente logorio legato a questa professione, tema peraltro già sviluppato da Giancarlo Dillena in un recentissimo editoriale dedicato proprio al ritorno sui banchi. A farmi riflettere, piuttosto, sono le inquietanti notizie riportate dai media negli ultimi giorni.
A Minusio prima e a Camorino subito dopo, le autorità comunali e scolastiche si sono trovate a fronteggiare contestazioni massicce da parte di genitori infuriati; tema, alcune soluzioni prospettate dalle direzioni per i loro pargoli, e risultate sgradite alle famiglie. Nel primo caso, oggetto del contendere è la scelta di collocare insieme, in una «biclasse», 22 bambini di terza e quarta elementare; nel secondo, la polemica verte sulla decisione di sistemare un locale del palazzo comunale, a un chilometro dalla sede elementare, per ospitare una sezione di quinta. Non si tratta affatto di fenomeni nuovi; due anni fa a Verscio, le proteste del Gruppo genitori – «se i nostri figli dovessero spostarsi ogni giorno a Cavigliano per frequentare la scuola finirebbero sradicati (sic)» – avevano portato il Legislativo a bocciare il progetto di un Istituto scolastico unico per i Comuni del comprensorio.
Il quadro che emerge da questi episodi – solo le manifestazioni più rumorose di un fenomeno di portata ben maggiore – è sconsolante, per le persone che quotidianamente si prendono cura dei nostri figli. Certo, non siamo ancora giunti agli allarmanti estremi della Scuola italiana – messi alla berlina nelle ultime settimane dal Cor Sera –; alla frequente situazione in cui il maestro è semplicemente un fallito, che per uno stipendio da fame accetta scherno e disprezzo da chi come modello culturale unico ha quella «vita smeralda» raccontata dalla tv. Non siamo ancora a questo estremo. Però il disagio di chi insegna, di fronte a un clima sempre più pesante, è confermato dalle cifre; prendiamo la penuria di insegnanti nelle materie scientifiche. Se foste al quinto anno di Politecnico, voi cosa scegliereste, facendo astrazione per un istante della questione salario: un impiego nell’industria o nell’economia, oppure altri due anni di Alta scuola pedagogica, per poi rischiare di essere trattati come lo scemo del villaggio, dai genitori del ragazzo al quale avete assegnato un 3? Io confesso di essermi quasi commosso, qualche mese fa, quando un rispettato ingegnere mi ha detto, del suo figlio maggiore: «Quando finirà gli studi universitari ha già deciso che vuole insegnare, alla Scuola media. È il suo sogno da sempre». L’unica consolazione, per gli insegnanti che hanno sperimentato qualche forma di angheria, può forse venire dall’interpretare la questione come un «malanno collaterale del successo»; tutto questo accade perché, in Ticino, siamo alle prese con la prima generazione di genitori cresciuti – con buon esito – nell’epoca dell’istruzione di massa. Se oggi tanti di loro – una maggioranza, c’è da scommettere – hanno potuto studiare al punto da ritenersi più intelligenti di chi insegna l’ ABC ai loro figli, è solo perché la tanto vituperata scuola pubblica, almeno nel loro caso, ha avuto successo. Anche con le pluriclassi. Anche con sedi ricavate nei palazzi comunali. Anche se loro se ne sono dimenticati.